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un buon pastoreper Chinatown

Integrazione Parla il "parroco" dei cinesi d'Italia

di Redazione

Don Geng Xin è il cinese che cambierà il volto della Chinatown milanese. Parola di Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano: è lui che l’ha voluto. «Sono una sorta di missionario fra la mia gente, arrivato per aprire le porte di casa, e costruire ponti di dialogo», esordisce il sacerdote nell’incontro con Vita, prima testata a essere accolta nella casa parrocchiale di via Giusti, nel cuore di Chinatown. Corporatura robusta e sguardo profondo, Geng Xin ha 43 anni ed è originario di Pechino. In Italia da cinque anni (ha studiato missiologia a Roma, dove ha cambiato il suo nome cinese, Geng Xin, in quello di Pietro Cui perché «è più facile da ricordare per gli italiani»), è il responsabile nazionale della comunità cattolica cinese in Italia. Impegno che lo porta quasi ogni giorno a viaggiare fra i 130mila suoi connazionali sparsi lungo tutto lo Stivale.
Vita: C’è un clima migliore a Milano?
Don Pietro Cui: Sì, anche se Milano resta l’urgenza numero uno per i cattolici cinesi in Italia. Ora vengo ogni weekend: al sabato per fare catechismo e la domenica pomeriggio tengo la messa in cinese. Chinatown, a suo modo, rappresenta una nuova frontiera, una zona di missione. Gli abitanti sono miei connazionali ma è come se non li conoscessi per nulla. Sono venuto come diocesano, ma mi ritrovo missionario.
Vita: In che senso?
Don Cui: A Milano, su 15mila abitanti cinesi censiti, chi frequenta ora la parrocchia sono in 150, che non a caso è la stessa percentuale, 1%, di cattolici in Cina. Gli altri sono buddisti, alcuni protestanti, la maggior parte non credenti. Il numero di cattolici è comunque basso perché molti di loro non sanno dell’esistenza delle parrocchia: lavorano troppe ore in fabbrica, o vivono fuori Milano. Quindi il nostro scopo primario è farci conoscere: ma non solo ai cattolici, ma a tutti i cinesi, per creare una comunità più unita, meno individualistica. Ecco perché da aprile abbiamo pubblicato un bollettino di notizie e stiamo facendo una sorta di pubblicità nella città per renderci visibili. Per Pasqua, ad esempio, una tradizione che pochi conoscono, abbiamo addobbato la parte esterna della chiesa con disegni e scritte colorate: alcuni si sono incuriositi e hanno chiesto spiegazioni.
Vita: Su cosa punta nella sua attività?
Don Cui: Nell’investire sulle relazioni, sull’aiuto reciproco, come avviene in Cina, dove nelle comunità religiose si diventa amici prima di diventare fedeli. Lo scopo della mia presenza è creare una comunità che si parli all’interno e poi sia capace di comunicare alla pari con il mondo esterno. Dalla mia porta faccio entrare tutti, non solo i cattolici, e io stesso cerco di recarmi il più possibile nelle case della gente senza dirgli “venite in chiesa”. Piuttosto chiedo cosa hanno bisogno, per non farli chiudere ancora più in se stessi.
Vita: C’è la voglia, nella comunità cinese, di “mischiarsi” agli italiani?
Don Cui: Sì, con riserve. La volontà di raggiungere l’integrazione c’è, soprattutto fra aderenti alla stessa fede, nel nostro caso quella cattolica. In altre situazioni è più difficile. Ci sono però molte associazioni sia cinesi che italiane che fanno un ottimo lavoro.
Vita: Ha qualcosa da dire agli italiani?
Don Cui: Basta con questa storia dei cinesi che non muoiono mai. La vera ragione dei pochi decessi è semplice: abbiamo la tradizione, una volta anziani, di tornare a morire in Cina! E poi vorrei che la gente non abbia remore nell’avvicinarsi a noi, potrebbe cominciare imparando il cinese (sorride, ndr). L’obiettivo più importante da raggiungere è che la comunità cattolica un giorno diventi un vero ponte tra italiani e cinesi d’Italia. Avere delle difficoltà è normale. Ma si può migliorare, giorno dopo giorno.

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