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Crisi alimentare e agrocarburanti, la posizione di Acra

Una ong denuncia: le monocolture e le speculazioni affamano i poveri.

di Redazione

Lo scorso giugno si è svolto a Roma il Summit della Fao sull’alimentazione. Riportiamo il commento di Micol Cappello, delegata al forum Terra Preta di ACRA. ong che si occupa di progetti di sviluppo agricolo nei Paesi in via di sviluppo.

Nel 1996, anno del precedente Vertice Mondiale FAO sull’alimentazione, si stimava che nel mondo fossero circa 830 milioni le persone a soffrire la fame; i Governi furono tutti d’accordo sulla necessità di agire per arrestare questa tragedia e a questo scopo furono definiti gli Obiettivi del Millennio, nei quali i paesi “sviluppati” si assumevano l’impegno comune di dimezzare entro il 2015 il numero di persone affamate.

Ad oggi sono 856 milioni le persone che soffrono la fame e le attuali stime prevedono che entro il 2015 la cifra aumenterà del 50% arrivando a 1200 milioni di persone, ciò semplicemente stimando i trend attuali di sviluppo, senza tenere conto degli imprevedibili effetti dei mutamenti climatici.

Negli ultimi anni si è assistito a livello globale ad una forte intensificazione e aumento dei conflitti legati al possesso della terra e alle risorse; tali fenomeni risultano, per intensità e diffusione, particolarmente collegati all’emergere dei problemi derivanti dai mutamenti climatici.

Proprio in questi giorni, tutti i principali media mondiali parlano di un’emergenza alimentare globale, imputata ad una fortissima impennata dei prezzi dei generi alimentari e alla scarsità di cibo nei paesi in via di sviluppo. Le ragioni di questa gravissima crisi sono molteplici, principalmente di natura economica. Il problema non sembra essere in realtà la scarsità di alimenti disponibili a fronte dei bisogni delle popolazioni, ma il fatto che il cibo, lungi dall’essere considerato un diritto di esseri umani e comunità, è oggetto di speculazioni selvagge e incontrollate da parte di interessi economici oligarchici e monopolistici a livello mondiale.

Le grandi imprese transnazionali fanno incetta di terre nei paesi in via di sviluppo, dove impongono monocolture e sistemi di coltivazione intensiva a basso costo, caratterizzate dall’uso massiccio di prodotti chimici, acqua ed energia, dall’utilizzo di OGM e da una produzione massiccia di CO2 (l’agricoltura industriale è ritenuta responsabile di una quota compresa tra il 17 e il 32% delle emissioni globali di gas ad effetto serra responsabili dei cambiamenti climatici), destinate interamente all’esportazione.

Oltretutto, il protezionismo economico USA e UE nei confronti della propria agricoltura impedisce la competizione ad armi pari sul mercato globale con i produttori dei paesi in via di sviluppo che non godono degli stessi sussidi.

La competizione produttiva con questi “mostri” economici da parte dei piccoli produttori e contadini, fautori di un’agricoltura locale, diversificata, organica e sostenibile, a basso impatto ambientale, è impossibile, e l’esclusione e impoverimento di intere popolazioni inevitabile. A pagarne le conseguenze non sono infatti solo i contadini, ma le intere comunità, dove l’equilibrio economico e alimentare è sovvertito, le colture tradizionali (e le culture ad esse connesse) e la biodiversità distrutte.

Un altro importante fattore di squilibrio del mercato globale della produzione alimentare si è aggiunto di recente: l’Unione europea, per fronteggiare la crisi energetica e petrolifera, ha imposto che il 10% dei combustibili destinati ai trasporti dovranno essere di origine vegetale. Questo provvedimento ha costituito una nuova frontiera per il mercato agroalimentare e una nuova fonte di enormi speculazioni. Le terre destinate alla produzione di cereali per uso alimentare sono state convertite alla produzione intensiva di cereali per la produzione di agrocombustibili, determinando un’ulteriore “caccia alle terre” (espropriazione, disboscamento, ecc), una forte impennata dei prezzi della produzione alimentare e un diffondersi di paradossi quali quello del Messico che, da principale produttore mondiale di mais vive oggi principalmente di mais importato, o di paesi centrafricani dove l’alimentazione è basata sul riso, importato dall’Asia.
Questa situazione sta non solo affamando milioni, se non miliardi di persone, ma anche andando in una direzione del tutto opposta a quella sancita dagli Obiettivi del millennio e dai governi, distruggendo ecosistemi e comunità e incrementando il cambiamento climatico, a favore degli interessi economici privati di pochi.

 

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