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C’era un volta l’amore

film Interessante esordio alla regia di John Carney

di Redazione

Once, ovvero c’era una volta. Cosa? Lo slancio, la capacità di guardare avanti, di ricostruire, di avere fiducia. Sentimenti o se preferite attitudini che apparterrebbero al dna di ciascuno. Se solo ce ne fossero “le condizioni”, potremmo dire con linguaggio burocratico. John Carney, che è regista e sceneggiatore di questo piccolo e delicato film, preferisce non essere perentorio.
Mette in scena un incontro tra diverse “crisi” e ne mostra le conseguenze. Cantautore dal cuore spezzato e dalle malinconiche canzoni offerte sui marciapiedi del centro di Dublino, lui; pianista immigrata (dalla Repubblica ceca) che sbarca il lunario vendendo fiori in strada, lei. Potrebbero succedere molte cose. Anzitutto che nascesse una bella storia d’amore. In fondo suonano entrambi, si piacciono, si ascoltano. Ma a non aprire veramente a questa possibilità, ci pensano i personaggi. Ciascuno in fondo è fatto anche delle ombre del suo passato e non sempre è facile liberarsi e guardare avanti. Alla rinuncia, ci si abitua.
Temi e analisi, come ognuno vede, non particolarmente originali. È la miscela, anche dal punto di vista stilistico, a fare la differenza. C’è un pizzico (voluto) di feuilleton – lei che vende i fiori, memoria letteraria e cinefila che si sovrappongono; c’è uno sguardo anche sociale – l’immigrata, anzitutto, ma anche il tossicodipendente o i vicini disoccupati che ogni tanto fanno capolino nella storia (vanno a vedere nella casa di lei l’unica tv del palazzo: do you remember?); c’è un’attenzione vera alla realtà cittadina e alle sue tante contraddizioni (Dublino, sfondo ideale per una vicenda come questa). Quel che però conta – e fa di questa pellicola un’opera interessante – è la capacità di ritrarre i temperamenti dei due musicisti, di alludere in modo lieve, senza schematismi, con uno stile volutamente dimesso, a tratti anche sorridendo, alle loro emozioni, ai loro pudori. Non fosse per questa tonalità, potremmo dire che siamo dalle parti del più cattivello Kaurismaki.
Qui ci porterebbero la narrazione che procede per sottrazione e per dettagli, le sfumature talvolta veramente minime che spesso non trovano parole, i raccordi sullo sguardo dei protagonisti e i numerosi primi piani senza altro commento che quello musicale. Del resto la musica è in questo film assai più che uno strumento. È apertura emotiva, si fa racconto autobiografico, passando con disinvoltura dall’essere dentro la scena (quando i due suonano) all’essere commento esterno.

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