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I-pod più M16.I teenagerdel check point
Israele Storie dal vero di ragazzi in servizio di leva
di Redazione
Tomba del re Davide, cuore di Gerusalemme. Il ragazzo, da poco maggiorenne, sta pregando alla maniera ebrea: kippah (il copricapo rotondo) in testa, prega recitando la sacra Torah nel caratteristico moto ondulatorio a piedi uniti. Una mano è leggermente posata sul sarcofago. L’altra, stringe un M16 che gli penzola a tracolla. Proprio così: un fucile M16, quello in dotazione a milioni di soldati semplici in tutto il mondo. Esercito d’Israele compreso.
E in effetti Adiel – questo il nome del ragazzo -, indossa l’uniforme marrone delle Idf, Israel defense forces. È in licenza, e visita, con un gruppo di commilitoni, il sepolcro dell’unificatore del popolo ebraico. Ma guai a mollare il mitra: deve portarlo con sé in ogni momento dei tre anni (due per le ragazze) di servizio militare obbligatorio. Anche quando prega. Altrimenti pena, una multa salata e alcuni giorni di consegna.
È lui stesso che ce lo dice poco dopo, mentre spiega che la sua arma, comunque, ha la sicura inserita. Meno male. «Sai, non è facile i primi tempi abituarsi a girare sempre con l’M16», incalza Ariel, «poi però diventa parte di te». E aggiunge: «Il servizio militare è una splendida occasione per fare amicizie, a volte puoi incontrare la ragazza della tua vita». Ma non basta la vita normale per quello? «Sì, ma tre anni sono lunghi, e poi arrivano in piena giovinezza», risponde. Necessità che diventa virtù: capita spesso, nell’esercito più giovane del mondo. Che ogni anno accoglie almeno 100mila nuovi ingressi, il 40% dei quali ragazze. E che è uno dei ricordi che rimangono più impressi a chiunque visiti la martoriata terra israelo-palestinese.
Dal vivo, se chiedi loro una foto, si mettono in posa. «Me la fai vedere?», chiede dopo lo scatto la ventenne Hanna. «Ma non siamo tutti felici di fare il servizio», ammette Liron, che di anni ne ha 22 e da 5 mesi ha finito il servizio, «a me è andata bene, ma ho un amico che ha implorato la dispensa perché stava impazzendo».
Non è l’unico. Molti, dopo il primo impatto con la realtà del servizio come «i rigidissimi controlli ai check-point r le incursioni notturne nei villaggi palestinesi», perdono la bussola. «Per questo, quando uno finisce, spesso viaggia per mesi all’estero, per riacquistare serenità», chiarisce Liron. Le cose che vedono e fanno, a questi giovani spesso rimangono impresse. E anche i dati delle esenzioni parlano chiaro. L’anno scorso è stato da record: il 28% degli abili non è partito.
A Tel Aviv, la moderna ed “europea” capitale, si è arrivati al 35%. In mancanza dell’obiezione di coscienza, ancora oggi punita con il carcere, la scusante, per molti ebrei anche non troppo ortodossi, è il motivo religioso, unica ragione che lo Stato d’Israele ammette.
C’è un soldato, Gilat Shalit, classe 1986, che il 28 agosto 2008 ha compiuto i suoi 22 anni nelle mani di Hamas. Era stato rapito con un cruento blitz, nel giugno 2006. Aveva 19 anni. Inutili le successive rappresaglie israeliane. A 11 anni Gilat aveva scritto un racconto, Lo squalo e il pesciolino. L’allusione alla guerra che portava avanti il suo Paese era chiara. Ma c’era il lieto fine: era proprio lo squalo che proponeva la pace al pesciolino, che accettava di buon grado. Nella realtà, invece, una vera pace non è mai arrivata. E un branco di piccoli pesci accecati dalla fame un giorno ha “inghiottito” uno squaletto sognatore, che passava da quelle parti. Con un M16 a tracolla.
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