Non profit

Italia-Sudan, bla rotta proibita

Armi Human Rights First denuncia la violazione dell'embargo

di Redazione

294mila dollari di armamenti solo nel biennio 2004-05:
anche il Belpaese alimenta il flusso illegale verso Karthoum. Con Cina e Russia a fare da apripista Q ualche settimana fa una nave piena di armi è stata assaltata nel Mar Rosso dai pirati somali, che vi hanno trovato lanciagranate e munizioni di fabbricazione russa. Secondo il portavoce dei dirottatori il carico era diretto in Sudan via Nairobi. Ma le autorità keniote hanno subito smentito. Era normale che lo facessero, dato che dal 2004 un embargo delle Nazioni Unite vieta a tutti gli Stati di commerciare armamenti di qualsiasi tipo con Khartoum, per il timore che li possa usare contro la popolazione del Darfur. Piccolo particolare: secondo un rapporto appena diffuso da Human Rights First, un’organizzazione non governativa statunitense per la difesa dei diritti umani, il governo di al-Bashir ha ricevuto armi da quasi 30 nazioni di tutto il mondo tra il 2004 e il 2006, Italia compresa. Basandosi sui dati ufficiali – le cifre dichiarate dal Sudan stesso al Comtrade, l’ufficio statistico dell’Onu per gli scambi commerciali – Hrf divide questi Stati in due categorie. Nella prima, quelli che hanno ammesso di aver avuto rapporti con il Sudan, come Arabia Saudita, Bielorussia, Cipro, India, Iran, Kenya, Senegal, Slovacchia, Spagna e Turchia, ma soprattutto Russia (che non solo ha ceduto 33 velivoli militari a Khartoum, ma ne ha anche addestrati i piloti), e la grande amica di al-Bashir, la Cina. Nonostante Pechino ammetta di aver venduto soltanto 700mila dollari di armamenti, il Sudan ne dichiara 55 milioni, e l’accordo militare stabilito tra i due Paesi nel 2005 parla di 80 milioni (non specificando in quanti anni). Cifre che spiegano perché la Cnpc, la compagnia petrolifera cinese di cui il 19 dicembre sono stati rapiti nove tecnici nella regione del Kordofan, abbia così grande libertà di movimento in tutto lo Stato.
L’Italia compare nel novero dei Paesi che invece hanno smentito i traffici sotto embargo. I numeri di Hrf parlano di 294.094 dollari di armi per il biennio 2004-05, in gran parte pistole e cartucce. È possibile che questi materiali fossero in realtà diretti in un altro Paese che poi li ha girati al Sudan. Una possibilità ammessa da Hrf e anche da Francesco Terreri , giornalista dell’ Adige che sulla faccenda indaga da tempo. Ma ciò non rende meno preoccupante la notizia: «Si tratta soprattutto di armi leggere», commenta Riccardo Noury , portavoce di Amnesty Italia, «le più usate dai miliziani filogovernativi che quotidianamente devastano i villaggi del Darfur, come i Janjaweed».
Il fatto che l’embargo, votato dal Consiglio di sicurezza Onu, non sia rispettato proprio da due Stati con un seggio permanente dimostra l’inutilità del provvedimento: «Noi chiediamo da tempo una risoluzione che vieti il commercio di armi con chi viola i diritti umani», continua Noury. «Solo una decisione presa da tutte le nazioni in assemblea può influenzare le superpotenze, che si sentirebbero maggiormente sotto controllo». Un’altra soluzione è la tracciabilità delle armi «come per i prodotti alimentari», afferma Francesco Vignarca , della Rete italiana per il disarmo, «così da poterne conoscere le origini e i vari Paesi da cui sono passate». E al governo italiano Human Rights First lancia una richiesta: capire chi sono i Paesi terzi che rivendono le armi al Sudan, in modo da interrompere i rapporti commerciali con essi. Ed altri evitare “incidenti”.

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