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A scuolabi pontibesistono già

inchiesta Studenti e genitori, parlano gli immigrati

di Redazione

Altro che sezioni di inserimento, «per imparare la lingua e integrarsi davvero è molto più utile stare a contatto con i nostri compagni italiani». Negli istituti di Milano, Genova e Roma a stare a sentire i diretti interessati non ci sono dubbi: «La cosa migliore è lasciare la cose come sono» L a soluzione all’integrazione scolastica degli stranieri c’è già. «Lasciare le cose così come sono». Altro che classi ponte o di inserimento. E sono proprio loro, gli studenti, a dirlo. Con i loro genitori. Già dalle medie. Immigrati e italiani. Ragazzi e genitori li abbiamo incontrati all’uscita da scuola di un lunedì di fine ottobre. Milano, Genova, Roma: il responso è dappertutto lo stesso. L’integrazione corre grazie al rapporto con i compagni italiani e grazie al lavoro intelligente dei professori. Succede così anche in situazioni complicate come nelle due medie inferiori più multietniche di Milano, la Lombardini e la Alvaro, in zona Corvetto, le cui cifre parlano del 40% di alunni stranieri e di un record (per la Alvaro): una classe con soli 6 italiani su 23.

L’arrivo
«Al mio arrivo in Italia, due anni fa, ero spaesata. Ma non mi sarei mai integrata davvero in una classe di soli stranieri», spiega in ottimo italiano Ruth , 15 anni, nata nelle Filippine, «la lingua l’ho imparata giorno dopo giorno, rapportandomi coi miei compagni italiani». Radhi , 13 anni, del Bangladesh, invece l’italiano lo parla a stento: «Sono qua solo da un mese», fa capire. È stato inserito, con un gruppo di compagni della media Alvaro, in un progetto di alfabetizzazione di sei ore alla settimana, le uniche che passa fuori dalla classe. «Bene così», dice. «Sì, funziona», ripete all’unisono un gruppetto di rom bosniaci, compagni di Radhi.
A Oksana , invece, romena di 14 anni, quando è arrivata a Genova in terza media, hanno offerto il supporto di una maestra dedicata, «ma lei niente, ha voluto seguire come tutti gli altri. E dire che fino a un paio di mesi prima non conosceva nemmeno una parola d’italiano», racconta la zia, Dorina Vasile , che si è occupata dell’iscrizione scolastica. «Lei e sua sorella Elena, di 9 anni, hanno legato subito coi compagni e in un batter d’occhio hanno acquisito le abitudini italiane, o meglio, genovesi. Come la passione per le trenette al pesto: guai a farle diverse da quelle della mensa scolastica!». Anche per Abdelali Elasry i problemi di lingua sono un ricordo lontano: «La mia prof di Lettere vorrebbe affidarmi la direzione del giornale scolastico», afferma con un pizzico d’orgoglio. Ha 19 anni e in Italia è arrivato dopo due anni di elementari in Marocco. «A Roma ho dovuto ripetere un anno», racconta. Per lui l’inserimento non è stato semplice: «A causa degli spostamenti di domicilio ho cambiato ben tre scuole e, in classe, ero sempre l’ultimo arrivato: lo straniero guardato con sospetto persino dagli stranieri».

Le materie
«Imparare a parlare è la difficoltà principale all’inizio, senza dubbio», interviene Philippe , 14 anni, filippino in Italia da un anno. Ma non è così per tutti. Ruth, anche lei filippina: «Altro che l’italiano, per me il problema numero uno si chiama matematica». Il tallone d’Achille di Giulia Hu , 16 anni, studentessa di origini cinesi, invece è la chimica. Dopo aver frequentato i primi due anni di superiori a Torino, «in un liceo orientato alla sperimentazione linguistica», oggi è iscritta al Galileo Ferraris di Varese. «Il programma è impegnativo e alcuni professori molto esigenti, ma la differenza culturale non c’entra». «Pensavo che la vostra scuola fosse più difficile», aggiunge Linda , peruviana, quest’anno in terza media. E persino con qualche sorpresa: «Ai test d’ingresso per il liceo scientifico, mio figlio è stato il primo della classe nella prova d’italiano», racconta Cristi Igescu , romeno di Torino. Un po’ come il fratellino del tunisino Osama Al Saghir , un piccolo genio della grammatica e delle tabelline: «È uscito dalle scuole elementari con pagelle invidiabili e quando l’anno scorso ha cominciato la media, ha insistito per iscriversi alla Duca d’Aosta, fra le migliori di Roma», racconta Osama. «Peccato che l’abbiano subito inserito in una classe di soli stranieri, con grosse difficoltà linguistiche», aggiunge.

I compagni
A sentire questi neo-italiani, c’è un aspetto che più di altri li aiuta a recuperare il gap linguistico nel più breve tempo possibile: il rapporto con compagni di classe, italiani e G2. «Anche se non capisco tutto, passo più tempo possibile ad ascoltare i miei compañeros», si lascia scappare il timido Eduardo , 12 anni, arrivato solo ad agosto da Guayaquil, Ecuador. «Poi passo alcune ore con l’insegnante di sostegno». Lo stesso fa Mino , coetaneo e compagno di Eduardo, arrivato in Italia anche lui l’estate scorsa, dall’Egitto. Ha poco vocabolario, ma il messaggio è chiaro: «Studio la lingua italiana sul libro, ma imparo a essere italiano con la conoscenza degli altri». Poco lontano c’è Abdoul , marocchino, 17 anni, che ora è in terza superiore ma che ha imparato l’italiano alle elementari: «A ripensarci, essere subito inserito in una classe normale è stata la cosa che più mi è servita», spiega.
Anche Michela Dutescu , mamma romena di una bimba di 4 anni, è preoccupata all’idea di classi-ponte: «Molti genitori immigrati non sono in grado di sostenere l’integrazione dei propri figli, perché sono essi stessi in condizione di fragilità. In questo, la condivisione scolastica coi compagni ha un ruolo determinante. Penso alla mia bambina, all’eventualità di classi separate, e immagino il suo incontro in corridoio con gli altri alunni italiani. Cosa potranno mai pensare l’uno dell’altro, se per tutto il resto del tempo nemmeno si sfiorano?».

I professori
Nessuno dei ragazzi interpellati ha avuto da dire sui propri docenti. I professori sono la sola cosa che Abdelali salva senza riserve dei suoi tre anni alla media Tommaso Grossi di Roma. «Mi hanno messo in una classe-ghetto composta da soli stranieri», racconta. «Fortunatamente i docenti hanno fatto il possibile per renderci protagonisti della scuola proponendo una sfilza di laboratori interculturali. Ahmed , 16 anni, originario del Bangladesh, fa la prima superiore in un istituto tecnico e non sa niente della proposta delle classi ponte. È da otto anni in Italia, ma agli inizi anche lui è stato aiutato «dai compagni e dalle ore di sostegno. Come avviene ancora oggi: perché cambiare?», si domanda.

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