Non profit
La svolta sostenibileba Speculation Town
qui dubai Il regno della finanza selvaggia cambia rotta
di Redazione
Immobiliare in frenata, compagnie in rosso profondo. La crisi arriva anche nei ricchi Emirati. La risposta? Investimenti in energia pulita. E una consistente iniezione di etica e trasparenza
S i converte all’etica la capitale “immorale” del Golfo Persico. O almeno ci prova prima che il sogno da mille e una notte, di città ricchissima e tollerante della penisola araba, si trasformi in un incubo finanziario per tutta la regione. E lo fa alla sua maniera, quella tipica delle fresche fondamenta di Dubai, città-stato degli Emirati Arabi Uniti, dove i canti dei muezzin sono oggi coperti dal rombo di gipponi e fuoriserie perennemente al pascolo nelle sette corsie del lungomare e dove le moschee sono nascoste dal lusso in verticale degli avveniristici grattacieli.
La nuova parola d’ordine è sostenibilità. Difficile da credere per la Do-Buy, come chiamano gli stranieri la giungla di cemento votata allo shopping più sfrenato, nata intorno all’insenatura del Creek Dubai sfruttando prima le perle dei fondali marini, poi l’oro nero, e quindi ora il business del mattone seguendo le semplici regole “zero tasse” e “zero domande” sulla provenienza dei capitali degli investitori esteri. Un sistema retto da un esercito di immigrati – pakistani, indiani, filippini – che assicurano lavoro a basso costo non stop (sui ponteggi) e porte aperte alla speculazione: un appartamento può essere comprato e venduto fino a tre volte prima ancora di essere costruito.
Ora però la crisi rischia di seppellire tutti i record di Dubai (il grattacielo più alto del mondo, il centro commerciale più grande, piste da sci nei centri commerciali, il reddito medio più generoso della regione). E non c’entra solo il collasso dei mercati. Lo sceicco Mohammed bin Rachid Al Maktoum, governatore di Dubai e premier degli Emirati, si è trovato costretto a lanciare un bond – un’obbligazione -, caso unico per un Paese della regione, per sostenere i flussi di cassa.
Dopo sei anni eccezionali, la crescita infatti potrebbe subire un brusco arresto. I prezzi immobiliari per la prima volta frenano, aumentando “solo” del 16%. Una percentuale invidiabile altrove, ma una spia d’allarme a questi latitudini per un Paese abituato a una crescita dei valori dal 40% in su (un piccolo appartamento sul Burj Dubai è stato venduto a 8 milioni di euro). E il debito è vicino a superare livelli di guardia. Le compagnie controllate dalle Stato di Dubai risultano pesantemente in rosso, gravate da 70 miliardi di esposizioni nei confronti delle banche, un debito – raddoppiato in dodici mesi – che vale più della metà di quello di tutti gli Emirati Arabi Uniti.
La risposta alla crisi viene svelata da Al Maktoum nella sala congressi dello sfavillante hotel Atlantis, inaugurato un mese prima sulla Palm Beach, l’isola artificiale a forma di palma, orrore degli ambientalisti, durante la conferenza mondiale sullo sviluppo sostenibile: edilizia ad alto risparmio energetico, nuove aree verdi e investimenti in energia rinnovabile. Mossa che fa il paio con quella della capitale, Abu Dhabi – che da sola detiene la terza forza di riserve petrolifere del mondo – che ha in cantiere dieci centrali solari.
Ambiente ma non solo. La vena riformista passa anche per l’impresa. A Dubai è appena nato il Center for Responsible Business, una task force dedicata a promuovere trasparenza dove fino ad oggi non ce n’è stata affatto. Da una ricerca pubblicata di recente risulta che solo il 18% delle società con base a Dubai hanno strategie di sviluppo della Csr. Ma, tanto per non smentirsi troppo, la città-Stato si candida anche a capitale della nuova industria dei derivati, lanciando un listino che aprirà entro il 2009.