I tornei sportivi che da un quarto di secolo organizzo ogni anno a scuola mi consentono di osservare quello che succede nel macrocosmo dello sport anche stando ai margini della mia palestra.
Gli studenti Mario, Duccio, Andrea e Ludovico frequentano ogni domenica la curva sud dello stadio di San Siro. Imitano quelli più grandi, fanno i duri, quelli che non temono di spaccare tutto quello che li circonda. Durante la settimana sulle le tv locali seguono i dibattiti da Bar dello sport, e a scuola ripetono le stesse frasi che ascoltano dai vari personaggi che si urlano addosso l’un l’altro, usando perfino lo stesso tono di voce. Quando sono in campo, ogni errore proprio viene “coperto” da parolacce e insulti al compagno di squadra, che a sua volta si sente in diritto di aggredire chi sbaglia. Come loro gli altri, che ogni dieci secondi rivendicano un calcio di punizione, negano di aver spinto l’avversario, minacciano di spaccare il muso a chi sta giocando, accusano gli attaccanti o i difensori di non saper risollevare le sorti della squadra e di essere i responsabili dello svantaggio.
Da anni ho scelto di stare ai margini della palestra, perché penso che sia il posto giusto per chi agisce in funzione degli adolescenti, ma chi sta ai margini è fuori, non conta. Non conto come gli opinionisti del calcio, che fanno scuola ai miei alunni, perché non sono al centro della scena e non urlo. Noto però che la società della vittoria a tutti i costi non lascia spazio ai perdenti, ai ragazzi più deboli, ai meno capaci, che restano indietro e cadono alla “corsa dei topi”; stritola gli adolescenti educandoli alla civiltà delle parolacce, dello sputo e dell’inganno, alle regole del disprezzo, del dileggio e della sopraffazione, regole che dai margini ti sembrano aberranti e disumane. Dovremmo riflettere invece, secondo me, sulla marginalità, solitudine e miseria sportiva di migliaia di adolescenti, che ormai sono vicini al disagio mentale permanente più di quanto si pensi.
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