Non profit
Così tanti, così vitali.bUna rivoluzione in vistabper la terza età
Dopo i 65 anni Marco Trabucchi, un geriatra innovatore
di Redazione

Il 70% dei nostri “vecchi” sta bene ed è autosufficiente: la logica dell’esclusione perciò è imposta dal nostro approccio all’anzianità. Ma così ci perdiamo tutti I n tempi di profondi capovolgimenti demografici, guardare all’invecchiamento della popolazione senza disfattismo si può. Come? «Collocando gli anziani all’interno dei processi vitali, in modo da concorrere alla crescita civile, economica e sociale del Paese». Parola di Marco Trabucchi, geriatra e presidente del comitato scientifico della Fondazione Socialità e ricerche onlus, che il 12 e 13 dicembre, a Stresa, ha organizzato il Forum T erza economia – Sempre più valore dalla Terza età , col supporto tecnico-culturale di The European House – Ambrosetti e il sostegno della cooperativa sociale KCS caregiver.
Vita: Professore, l’invecchiamento demografico sarà l’emergenza sociale del domani?
Marco Trabucchi: I media tendono a dipingere un quadro piuttosto angosciante del futuro, profetizzando il collasso del welfare, con sistemi pensionistici, economici e sanitari non più sostenibili. Osservo queste dinamiche ormai da 35 anni e personalmente credo che la plasticità sociale riesca a trovare delle soluzioni, magari non esaustive, certamente perfezionabili, ma comunque capaci di attivare risorse inedite. È sempre stato così: già alla fine degli anni 70, quando iniziai a occuparmi di Alzheimer, si prevedeva con l’arrivo del 2000 una catastrofe “geriatrica” di fatto mai verificatasi. Detto questo, l’invecchiamento demografico è un fenomeno reale che pone delle sfide. Ma nel guardare all’anziano la logica disfattista dei numeri non porta buon consiglio: vorremmo appellarci piuttosto a quella del fare, della coesione sociale e delle potenzialità umane.
Vita: Da qui l’idea di una “terza economia”?
Trabucchi: L’ipotesi è quella di ripensare al ruolo dell’anziano in quanto produttore di ricchezza, innanzitutto per sé ma anche per la società intera, là dove la qualità di vita del singolo è strettamente legata alla qualità del capitale sociale: se il 10% dei cittadini, come accade oggi nel caso degli anziani, è escluso dalle dinamiche relazionali, ne risente la collettività. Viceversa, il benessere economico e psico-fisico dell’individuo innesca un circolo virtuoso che produce ricchezza per tutti.
Vita: Come recuperare la dimensione “produttiva” dell’anziano?
Trabucchi: Pensando a un prolungamento concreto dell’attività lavorativa, che gli permetta di continuare a esercitare il suo know-how, di coltivare i suoi interessi, di applicare le sue energie creative e relazionali nel perseguire alcuni obiettivi. In Francia, per esempio, opportuni sgravi fiscali e condizioni normative vantaggiose hanno permesso agli anziani di costituire cooperative attive nel campo nei servizi. In Finlandia, invece, hanno introdotto schemi organizzativi e fiscali che consentono al lavoratore pensionabile di rimanere in azienda part-time. E non si tratta di “contratti-beneficenza”, ma di part-time produttivi a tutti gli effetti. In Italia è ancora tutto da pensare.
Vita: Dopo una vita di lavoro? altro lavoro?
Trabucchi: La logica non è punitiva, ma inclusiva e migliorativa della qualità di vita. Sappiamo che il pensionamento è uno dei passaggi più delicati della terza età e che spesso si trasforma in un momento di depressione, di perdita di interessi e speranza. È chiaro che la proposta deve essere tarata, sia dal punto di vista operativo che normativo, sulla fascia d’età. Così come andrebbero sviluppati servizi dedicati, dal turismo al tempo libero, creando i presupposti perché l’anziano si trasformi in un consumatore intelligente. La direzione quindi è duplice, sul fronte del lavoro e sul fronte dei servizi.
Vita: Lavori, servizi, turismo “per anziani”? Non si rischia di creare una cultura del ghetto?
Trabucchi: Solo se l’espressione rimane nominale. Pretendere che un 70enne svolga attività usuranti, che lavori 9 ore al giorno, 6 giorni su 7 come fanno i colleghi più giovani in alcuni ambiti professionali: questo è ghettizzante, perché lo squalifica in partenza. Lo stesso vale per i servizi: il viaggio della terza età tristemente minimalista e un po’ “straccione”, che non crea occasioni e non produce né benessere né giro economico, acuisce lo stigma. Ma questo dipende proprio dal fatto che manca una cultura del “terzo servizio”. Oggi il 10% degli anziani ha bisogno di assistenza e un altro 20% vive situazioni limite. Ma al restante 70%, che sta bene ed è autosufficiente, la logica dell’esclusione è imposta dal nostro approccio all’anzianità, non da condizioni sanitarie oggettive. Si tratta quindi di convincere la società a guardare questa componente viva come risorsa per se stessa e per tutti.
Vita: Che cosa occorre perché la terza economia possa tradursi in realtà?
Trabucchi: Il lavoratore 65enne costa più del 40enne per gli scatti di anzianità: occorre quindi trovare formule contrattuali che permettano di alleggerire l’onere fiscale a carico dell’azienda. Entrate minori per lo Stato che però andrebbero recuperate sul versante della previdenza sociale. Serve un po’ di apertura mentale.
Vita: Che ruolo per il non profit?
Trabucchi: Può essere la chiave di volta nel pensare e nell’erogare servizi più vicini alla terza età. La rigidità pubblico-privata dovrà per forza essere superata. E lì si apre un mondo. L’idea è soprattutto quella di smettere di considerare l’anzianità solo in termini di emergenza sociale: rivendichiamo la normalità.
Vita: Va ripensato il welfare?
Trabucchi: Sì, ma a partire dal micro, non dal macro: anziché procedere al “top down” occorre ragionare in termini di “bottom up”, cominciare cioè a risolvere i singoli problemi che si presentano oggi. Le riflessioni sulle palingenesi rischiano sempre di essere inconcludenti.
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