Welfare

Qui Kashmir. Il nemico non ci dà pace

di Redazione

Una guerra che dura da 60 anni. Decine di migliaia di morti.
Un Paese “democratico” come l’India che non riconosce il diritto di un popolo all’autodeterminazione. Ecco il nostro calvariodi Rufaida Sufi
Ormai è passato più di mezzo secolo, eppure non c’è segno della fine del conflitto nella regione del Kashmir. Le ferite storiche risalgono al 1947 quando gli inglesi diedero l’indipendenza al Pakistan e all’India. La valle del Kashmir, che all’epoca era una monarchia in maggioranza musulmana, fu concessa all’India dai britannici. La decisione scatenò il conflitto tra gli induisti e i musulmani, che ancora oggi persiste. La valle del Kashmir, una volta conosciuta come uno dei luoghi più belli del pianeta, definito dai mahrajah «Paradiso in terra» e dal grande Mahatma come «la rosa più bella tra le rose» diventò presto un inferno. Negli ultimi sessant’anni sono morte dalle 50mila alle 80mila persone; altre sono state rapite; le donne molestate dai militari; i giovani spariti nel nulla e altri ancora uccisi perché sospettati di terrorismo. Il risultato è che oggi la popolazione è destabilizzata, incattivita e scoraggiata. Quando si arriva nella capitale, Srinagar, già all’aereoporto si ha una sensazione di prigionia e di oppressione. Dall’alto si scorgono i primi “banker”, cioè i posti di blocco, che ormai sono diventati delle vere e proprie cinte murarie. Nel 2004 era iniziato un lento processo di pace che aveva illuso i kashmiri ad ottenere l’indipendenza ma da allora niente è mai cambiato. Anzi, mentre il Kashmir combatte, l’India, Paese democratico, e personaggi corrotti (di quale Paese?) continuano a trarre profitto dalla guerra.
La situazione sembrava ad una svolta epocale la scorsa estate quando i leader separatisti hanno incitato i kashmiri a reagire e a non restare nell’ombra.
Sono stati giorni importanti e di relativa calma. Si era riacceso dalle ceneri il sentimento “azadi”, cioè di libertà. Giovani, donne, bambini, anziani sono scesi in piazza a protestare pacificamente, si voleva capitalizzare sulla strategia della nonviolenza. Sono bastati pochi giorni e questa occasione di pace si è trasformata in un’ennesima scia di sangue e di dolore. In quei giorni i militari indiani hanno commesso crimini atroci nei confronti della gente comune, che s’imbatteva nella bocca di un fucile ogni volta che usciva di casa. Un’altra occasione di pace e indipendenza è stata sprecata recentemente con l’esito delle elezioni nella regione himalayana, dove è stato eletto Omar Abdullah, leader appartenente al Partito democratico. Ma nonostante il nome del partito, questi non è l’uomo giusto per realizzare le aspirazioni dei kashmiri.
Quello che tutti noi kashmiri ci domandiamo è fino a quando il conflitto andrà avanti, quando otterremo l’indipendenza, quante altre vittime farà il conflitto, quanti altri decenni passeranno prima che il governo indiano capirà il valore della vita… Se si va avanti così, la risposta è: fino a quando la città sarà abitata solo dai militari perché la gente andrà in ricerca di un futuro e di una vita nuova da altre parti. I giovani kashmiri sono oggi più che mai pronti ad essere protagonisti nella lotta per liberare la loro terra madre. Sono cresciuti con il conflitto e lo combattono usando solo il senso della tragedia umana che hanno vissuto, sperando che prima o poi possa scuotere le coscienze del mondo.

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