Moltiplicare le abitazioni non basta. Ci vogliono idee innovative. Come quelle “comunità contrattuali” diffuse negli Stati Uniti. Solo così si evita il sacco del paesaggio
In un’intervista di qualche tempo fa, il regista Ermanno Olmi raccontava che per girare il suo film Il mestiere delle armi era stato costretto ad emigrare in Bulgaria abbandonando l’ambientazione storica della pianura padana del XVI secolo. Era impossibile, infatti, girare una qualsiasi scena d’insieme in un territorio saturo di case, capannoni, autostrade, ferrovie. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una ulteriore espansione edilizia, diversa da quella che ha vissuto la sua “golden age” con il boom economico del dopoguerra. Là gli insediamenti erano concentrati soprattutto nelle aree urbane.
Nell’attesa di un probabile rallentamento di questa ultima ondata di sviluppo edilizio, è meglio ripensare le politiche abitative. Zone di tutela, valutazioni di impatto, piani regolatori sono strumenti che, laddove esistono, avrebbero dovuto gestire le esigenze legittime di accesso a un bene importante come la casa e le esigenze, altrettanto importanti, di tutela del patrimonio storico ambientale.
Questo sistema di regolazione tutto interno alla politica e alla burocrazia ha però dimostrato di non funzionare se lasciato a se stesso, perché il formalismo procedurale e la sovrabbondanza di norme ha fatto spesso da paravento a interessi particolari che hanno letteralmente frammentato il territorio. Tutto (o quasi) è in regola nelle commissioni edilizie, tutto funziona nei “rendering” degli architetti, ma poi il dato di realtà è a dir poco sconfortante.
Estremizzando si può sostenere che nelle comunità contrattuali la casa non è un bene materiale, perché nel contratto di acquisto è incorporato un sistema di regole che può garantire un utilizzo migliore di un bene sempre più scarso. È uno spazio di azione molto importante anche per il terzo settore. Che certo è chiamato a rinnovare la sua classica azione di advocacy ambientalista, ma anche a mettere a disposizione forme democratiche e partecipative, oltre a servizi di prossimità, in grado di “fare comunità” attraverso un utilizzo responsabile del territorio che vada oltre il confine della propria siepe.
Un vero “piano casa” dovrebbe quindi prevedere incentivi per spazi e servizi comuni e non insistere, come ha fatto il governo, con la liberalizzazione delle cubature. In fondo, anche il bene per cui è più facile parlare di “proprietà privata” ha una rilevante dimensione pubblica che merita non solo di essere regolata, ma sostenuta.
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