Mondo
Usa, la crisi fa crescere i volontari
Ci sono perfino non profit che hanno aperto liste d'attesa, tante erano le domande di partecipazione. Nemmeno dopo l'11/9 il terzo settore è stato così popolare
di Redazione
Manager che servono nelle mense per i poveri, pubblicitari che organizzano raccolte fondi per le scuole, consulenti finanziari che spiegano, a chi non può permettersi un commercialista, come compilare le dichiarazioni dei redditi.
A marzo la disoccupazione negli Usa supera la soglia dell’8% ma molti americani, lasciati a casa dalla crisi economica, in realtà non ci pensano minimamente a restare tra le quattro mura domestiche. E così, in una corsa alla solidarietà con pochi precedenti nella storia d’America, in milioni bussano alle porte delle non profit mettendo a disposizione le proprie competenze o semplicemente il tempo libero.
Da New York a San Francisco passando per Chicago e Minneapolis, moltissime associazioni stanno registrando un’impennata nel numero dei volontari. Solo per fare qualche esempio, il sito volunteernyc.org, che coordina le attività nella Grande mela, a marzo ha visto crescere i contatti del 30%; Big brothers big sisters, un’associazione che lavora nella formazione umana e scolastica dei ragazzi svantaggiati, ha ricevuto il 25% di richieste in più rispetto ad un anno fa, mentre la Taproot Foundation di San Francisco, che raccoglie professionisti disposti a lavorare “pro bono”, ha collezionato in un solo giorno più adesioni di quante ne aveva raccolte lo scorso anno in un mese intero. Considerata la grande richiesta, la Continuum Hospice Care, che assiste i malati terminali su NY, ha iniziato addirittura una lista d’attesa per i volontari.
Ma qual è la molla che spinge milioni di americani, nel pieno della crisi, a decidere di lavorare gratuitamente? Sarà certamente vero che, come fa notare Allison Maughn, presidente dello stesso Continuum Hospice Care, «per molti disoccupati il volontariato è un modo per sentirsi utili e nello stesso tempo sviluppare nuove competenze, nella speranza che quelli che oggi sono mansioni gratuite domani si trasformino in retribuite». Osserva Bertina Ceccarelli, vicepresidente dell’associazione United Way che opera su New York: «Stiamo assistendo a un fenomeno straordinario che ricorda da vicino quanto accadde dopo l’11 settembre, quando la gente aveva voglia di sentirsi utile per superare collettivamente un momento così triste». In realtà, statistiche alla mano, in passato i periodi di crisi economica sono stati caratterizzati piuttosto dal calo del numero dei volontari, con i disoccupati presi dall’ansia di rientrare al più presto negli ingranaggi del lavoro retribuito invece che dedicarsi ad attività non profit. Ma questa volta è diverso, concordano molte non profit, perché diverso è il presidente.
Senza esagerazioni si potrebbe dire che Obama è il miglior testimonial che il volontariato potesse avere; con un passato da community organizer è un forte sostenitore del valore dell’impegno personale a favore della comunità, concetto ricordato in tutti i suoi discorsi e culminato in quella chiamata all’azione contenuta nel suo discorso inaugurale di gennaio. «Cari americani», ha detto Obama, «è arrivata l’ora di agire, servire le nostre comunità». Il presidente ha presto fatto seguire i fatti alle parole: proprio nei giorni scorsi il Congresso ha approvato un budget di oltre 5,7 miliardi di dollari destinati al programma AmeriCorps (l’equivalente del nostro servizio civile) e a molte non profit per reclutare e formare nuovi volontari. L’obiettivo è quello di passare dalle attuali 75mila a 250mila persone coinvolte nel progetto nell’arco di otto anni.
Nel nuovo piano, il lavoro di AmeriCorps si focalizzerà in cinque direzioni: aiutare i poveri, migliorare l’educazione, promuovere l’efficienza energetica, rafforzare l’accesso alla sanità e assistere i veterani.
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