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Birmania, ong a casa per mancanza di fondi

Il 60% delle popolazioni colpite vive ancora nelle tende. Ma gli aiuti hanno smesso di arrivare. E le difficoltà create dal regime militare complicano il quadro

di Redazione

A un anno dal ciclone Nargis in Birmania, buona parte delle quaranta organizzazioni internazionali intervenute per l’emergenza è tornata a casa per mancanza di fondi. E secondo fonti locali il 60% della popolazione colpita continua a vivere in alloggi temporanei. C’è un simbolo della difficoltà a uscire dall’emergenza: i teli di plastica. «Si stanno deteriorando, non ci sono fondi per sostituirli, figurarsi per ricostruire le abitazioni» dice al telefono da Yangon Paolo Felice, cooperante del Cesvi (ong che oltre ai fondi raccolti in proprio ha gestito oltre 2 milioni di fondi di agenzie internazionali come Unhcr, Oms, Pam e Unicef, Fao).
La sfida del soccorso umanitario nel “Paese dei generali” comincia dodici mesi fa: il 3 maggio del 2008 una furia di acqua e aria si abbatte nella regione meridionale del delta del fiume Irrawaddy colpendo 2 milioni e 400mila persone, delle quali 140mila perdono la vita e un milione restano sfollate e senza mezzi di sussistenza. I primi giorni del post emergenza sono dominati dalle trattative per permettere alle organizzazioni umanitarie di entrare nel Paese, governato dalla giunta militare del generale Than Shwe. Una quarantina di ong internazionali ricevono il permesso di operare. Poi, nei mesi successivi, una cortina di silenzio torna a calare sulla Birmania.
In Birmania i cellulari degli espatriati sono sotto controllo e le ong mettono subito in chiaro che i propri cooperanti non possono rispondere a domande che potrebbero metterli in difficoltà con il governo locale. A fine marzo un rapporto dell’ong thailandese Emergency Assistance Team ha analizzato i “risvolti umanitari” del post inondazioni, riportando episodi di violenza e violazioni dei diritti umani. Il 25 maggio 2008 nella località di Twantay, per esempio, le truppe governative bloccarono gli studenti dell’università di Dagon che avevano raccolto generi di prima necessità. I “responsabili” di tali aiuti vennero arrestati. Il rapporto riferisce di sistematiche azioni di ostacolo agli aiuti, ruberie e rivendita del materiale umanitario, utilizzo di lavoro forzato per i progetti di ricostruzione, compresi bambini-lavoratori, arresto e detenzione per gli operatori che hanno aiutato direttamente la popolazione.
Tuttavia, secondo 21 ong internazionali, fra cui Cesvi e Save the Children, «il rapporto è inaccurato», come hanno scritto il 10 aprile in una lettera congiunta. «Non ha raccolto informazioni da più di 50 organizzazioni internazionali e locali che operano sul campo, che hanno fornito assistenza umanitaria senza particolari interferenze». «Il sistema di coordinamento messo in piedi dall’Onu ha funzionato molto bene», afferma Felice, «nella nostra zona, a due ore circa dalla capitale, la distribuzione degli aiuti è stata efficace». E Chiara Segrado, a capo dell’Ufficio Asia di Save the Children Italia, precisa: «Eravamo già presenti in Birmania prima del ciclone con 500 operatori, per noi è stato quindi più facile operare».
In Italia la raccolta fondi privata per il ciclone Nargis è stata di circa un milione e mezzo. I due coordinamenti di ong Italia Aiuta e Agire (ora confluiti in un unico network per le emergenze) hanno raccolto 850mila euro e 264mila euro. Tra le singole ong attive in Birmania, c’è Medici senza frontiere (450.941 euro raccolti), Caritas Internationalis (450mila) e Save the Children (121mila). Soldi spesi soprattutto in cibo, tende, kit sanitari e cliniche mobili per l’assistenza medica degli sfollati. La sfida della ricostruzione però rimane: «L’attenzione su quanto accaduto in Birmania è molto calata e così anche i fondi», precisa Paolo Felice, «ma la situazione è tutt’altro che risolta».

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