Cultura
Diventare grandi studiando in caffetteria
A Torino formazione professionale per 500 ragazzi "difficili"
Imparare un mestiere, con i migliori professionisti. Ma anche misurarsi con i clienti e il mercato, fin da subito. E poesia, musica, teatro. Una scuola a 360 gradi, o meglio una piazza. Per passare dalla prevenzione del disagio all’empowerment
Cocktail di granchio e pompelmo, ravioli di pesce alla mediterranea, filetto di branzino in crosta di patate e mascafrutta alla menta. All’esame finale del corso di cucina, la sorte ha fatto uscire questi piatti. Sono le 11,30 e in cucina i ragazzi sono già a buon punto: il pranzo dei commissari è fissato per le 13. C’è solo un problema con la pasta dei ravioli: «Prof, va bene? L’ho già tirata tre volte e più sottile di così non viene», chiede affannato un gigante con la faccia da bambino. Daniel, sulla porta, sdrammatizza: facile, l’esame lui l’ha fatto ieri. «Scaloppine, non è giusto. Che puoi fare con le scaloppine? Quelle sono. Doveva capitarmi un dolce, lì puoi sbizzarrirti», si lamenta.
A Torino, alla Piazza dei Mestieri, è giorno d’esame. Cucina, ma anche servizio di sala e grafica. I parrucchieri hanno finito ieri. In cortile ci sono capannelli di ragazzi che si passano pagine di riviste strappate, in attesa dell’orale, e altri impeccabili nei loro gilet bordò, camicia bianca, scarpe nere col mezzo tacco, capelli raccolti. Saranno loro ad accogliere i commissari: anche in inglese e francese.
La Piazza dei Mestieri, però, è molto di più di un centro di formazione professionale. È un modello formativo ed educativo («non si può parcellizzare, non c’è la formazione da una parte e l’educazione dall’altro», dice la Almasio) nato e cresciuto attorno alla piazza. La piazza, fisica, è il cortile interno di una vecchia conceria nel cuore di Torino: 7mila metri quadri ristrutturati negli anni 90 per dare casa a un sogno. Oltre alla scuola, sulla piazza si affacciano un pub, un ristorante, una cioccolateria, un birrificio e una tipografia. Presto ci sarà anche un salone di parrucchiere. Tutti hanno, sull’insegna, la stesso logo. Le brioche servite al bar vengono – in parte – dal corso di arte bianca. Nella cucina del ristorante (solare, sobrio, elegantissimo) lavorano anche i ragazzi della scuola: a costo di chiamarli sul cellulare tutte le mattine, per svegliarli. Qualcuno (qui dentro, complessivamente, lavorano in 140) finisce anche per essere assunto.
«L’idea innovativa è proprio mettere insieme formazione, attività produttive, attività culturali e di aggregazione», spiega la Almasio. «L’aspetto di “comunità” è fondamentale: comunità qui dentro, ma anche con l’esterno, con la città e con la scuola. Quest’anno, per esempio, alcuni insegnanti statali hanno tenuto alcuni corsi da noi, per 100 ore: un confronto interessante e necessario, se ti chiudi nell’autoreferenzialità diventi un ghetto».
Guardando in su, dalla finestra aperta, si intravedono i ragazzi in fila, con il loro piatto in mano, pronti per entrare in sala e iniziare l’esame. Sotto, al monoblocco, Amina pesa la farina per le lasagne: le lezioni sono terminate, ma a casa si annoia. «Se vuoi costruire una nave, non radunare gli uomini per raccogliere la legna e distribuire i compiti», dice la frase di Saint-Exupéry scelta come slogan. «Insegna loro la nostalgia del mare ampio ed infinito». Sono contagiosi.
Vuoi accedere all'archivio di VITA?
Con un abbonamento annuale potrai sfogliare più di 50 numeri del nostro magazine, da gennaio 2020 ad oggi: ogni numero una storia sempre attuale. Oltre a tutti i contenuti extra come le newsletter tematiche, i podcast, le infografiche e gli approfondimenti.