Cultura

Diventare grandi studiando in caffetteria

A Torino formazione professionale per 500 ragazzi "difficili"

di Sara De Carli

Imparare un mestiere, con i migliori professionisti. Ma anche misurarsi con i clienti e il mercato, fin da subito. E poesia, musica, teatro. Una scuola a 360 gradi, o meglio una piazza. Per passare dalla prevenzione del disagio all’empowerment
Cocktail di granchio e pompelmo, ravioli di pesce alla mediterranea, filetto di branzino in crosta di patate e mascafrutta alla menta. All’esame finale del corso di cucina, la sorte ha fatto uscire questi piatti. Sono le 11,30 e in cucina i ragazzi sono già a buon punto: il pranzo dei commissari è fissato per le 13. C’è solo un problema con la pasta dei ravioli: «Prof, va bene? L’ho già tirata tre volte e più sottile di così non viene», chiede affannato un gigante con la faccia da bambino. Daniel, sulla porta, sdrammatizza: facile, l’esame lui l’ha fatto ieri. «Scaloppine, non è giusto. Che puoi fare con le scaloppine? Quelle sono. Doveva capitarmi un dolce, lì puoi sbizzarrirti», si lamenta.
A Torino, alla Piazza dei Mestieri, è giorno d’esame. Cucina, ma anche servizio di sala e grafica. I parrucchieri hanno finito ieri. In cortile ci sono capannelli di ragazzi che si passano pagine di riviste strappate, in attesa dell’orale, e altri impeccabili nei loro gilet bordò, camicia bianca, scarpe nere col mezzo tacco, capelli raccolti. Saranno loro ad accogliere i commissari: anche in inglese e francese.

La pizza di Erodoto
Quest’anno hanno studiato qui 455 ragazzi fra i 14 e i 18 anni, divisi in 22 corsi: avevano fatto domanda in 700. «Insegniamo un mestiere, con le migliori strutture possibili e i migliori professionisti del settore. Abbiamo moltissime situazioni complicate, ragazzi che vivono in comunità, drop out, ogni tanto mi tocca pure fare qualche denuncia: ma proprio per questo puntiamo sempre al meglio», spiega Nilde Almasio, direttrice della scuola. Merito degli alti standard qualitativi, merito di un database di 800 aziende partner per gli stage, e un anno dopo aver finito la scuola, l’80% dei ragazzi lavora. Mentre quest’anno si festeggia la prima ex allieva passata in corsa dai fornelli a Erodoto: sta facendo la maturità, al classico.
La Piazza dei Mestieri, però, è molto di più di un centro di formazione professionale. È un modello formativo ed educativo («non si può parcellizzare, non c’è la formazione da una parte e l’educazione dall’altro», dice la Almasio) nato e cresciuto attorno alla piazza. La piazza, fisica, è il cortile interno di una vecchia conceria nel cuore di Torino: 7mila metri quadri ristrutturati negli anni 90 per dare casa a un sogno. Oltre alla scuola, sulla piazza si affacciano un pub, un ristorante, una cioccolateria, un birrificio e una tipografia. Presto ci sarà anche un salone di parrucchiere. Tutti hanno, sull’insegna, la stesso logo. Le brioche servite al bar vengono – in parte – dal corso di arte bianca. Nella cucina del ristorante (solare, sobrio, elegantissimo) lavorano anche i ragazzi della scuola: a costo di chiamarli sul cellulare tutte le mattine, per svegliarli. Qualcuno (qui dentro, complessivamente, lavorano in 140) finisce anche per essere assunto.

A scuola alle 3 di notte
Il travaso dai banchi al cliente fa parte del progetto, come pure l’idea di avere una scuola aperta a tutti, dalle 7 del mattino alle 3 di notte, che alle ore passate a impastare pane o sminuzzare verdure sul monoblocco (i primi step) affianca un concerto dei Subsonica e un incontro con il sindaco Sergio Chiamparino. E in pausa pranzo («da passare rigorosamente qui dentro», dice la direttrice) prende per mano i ragazzi dall’unza punza alla musica dal vivo, dalla giocoleria al mettere in scena il musical Notre dame de Paris, dall’andar per vetrine con la prof di italiano per imparare a dire “cosa mi piace” allo scriver poesie (e fondare un concorso letterario).
«L’idea innovativa è proprio mettere insieme formazione, attività produttive, attività culturali e di aggregazione», spiega la Almasio. «L’aspetto di “comunità” è fondamentale: comunità qui dentro, ma anche con l’esterno, con la città e con la scuola. Quest’anno, per esempio, alcuni insegnanti statali hanno tenuto alcuni corsi da noi, per 100 ore: un confronto interessante e necessario, se ti chiudi nell’autoreferenzialità diventi un ghetto».
Guardando in su, dalla finestra aperta, si intravedono i ragazzi in fila, con il loro piatto in mano, pronti per entrare in sala e iniziare l’esame. Sotto, al monoblocco, Amina pesa la farina per le lasagne: le lezioni sono terminate, ma a casa si annoia. «Se vuoi costruire una nave, non radunare gli uomini per raccogliere la legna e distribuire i compiti», dice la frase di Saint-Exupéry scelta come slogan. «Insegna loro la nostalgia del mare ampio ed infinito». Sono contagiosi.

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