Prima o poi sarebbe successo che i lavoratori a rischio di perdere il posto di lavoro prendessero in mano il proprio destino e, organizzandosi autonomamente, riuscissero a vincere la loro battaglia. A cavallo di Ferragosto la vicenda dell’Innse è riuscita a “bucare” un’informazione quasi sempre piatta, essendo di esempio per altre esperienze che si spera possano cogliere un risultato altrettanto felice.
Occorre riflettere sull’insegnamento che deriva dall’azione di successo dei 49 lavoratori di quella azienda. Cominciamo dalla parte più debole.
In molti casi, l’iniziativa per il mantenimento del posto di lavoro non può che partire dai lavoratori stessi; anche perché (non è comunque il caso dell’Innse), più l’azienda è di dimensioni ridotte e minori sono i meccanismi di tutela dello Statuto dei Lavoratori, pensati nel 1970 per industrie di grandi dimensioni.
Dal lato dell’imprenditoria, l’etica praticata da Attilio Camozzi è un’autentica lezione. L’acquirente dell’Innse sostiene che per 44 anni non ha mai distribuito i dividendi disponibili, reinvestendo continuamente gli utili per consolidare e ingrandire le proprie attività, secondo una visione comunitaria di benessere diffuso e condiviso con i propri collaboratori. Sono sicuro che in Italia possano esserci altri imprenditori “alla Camozzi”, purché sostenuti da un sistema di concessione del credito non pienamente efficiente.
I sindacati devono poi analizzare più a fondo l’intero scenario del lavoro in Italia per rendersi conto che la loro rappresentatività, e quindi il loro potere contrattuale, è inversamente proporzionale al numero delle piccolissime aziende e dei lavoratori precari. Questi ultimi senza alcuna tutela in caso di mancato rinnovo del contratto di lavoro.
Esaminare più da vicino e quindi sostenere il progetto di “flexsecurity” del senatore Pietro Ichino in tema di riforma del rapporto di lavoro, può essere in questo senso un grande passo avanti.
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