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Il Pil, la Valtellina e noi. Riflessioni su Malaombra

La giornata dedicata al caso dei suicidi nella valle alpina. Un resoconto

di Redazione

Centinaia di persone hanno partecipato alla presentazione della ricerca realizzata dal valtellinese Aldo Bonomi. Uno sforzo collettivo, per pensare a felicità e destino In politica non sembra esserci posto per la felicità. Qualunque cosa significhi, questa considerazione ha attraversato come un mot de passe gran parte del dibattito sul welfare degli anni 80/90 quando, pur nelle confuse dinamiche di fine secolo, in un modo o nell’altro Stato e mercato riuscivano ancora a intrecciarsi con una certa costanza.
Nello stesso periodo, in Italia, richiamandosi un po’ maldestramente alla lezione economica di Ugo La Malfa, per sottrarsi alle insistenti critiche su alcuni tagli di spesa per sanità e assistenza, un oramai dimenticato ministro del Bilancio affermava: «Se la felicità dipendesse dal livello di cure socio-sanitarie indiscriminatamente garantito e dalle politiche pubbliche in genere, allora non si capisce perché nei Paesi scandinavi vi sia un tasso di suicidi tanto alto».

I luoghi comuni del Pil
Un doppio abbaglio, logico e di sostanza, perché il sistema di welfare nei Paesi scandinavi, comunque lo si voglia intendere, era e continua ad essere strutturato in modo complesso e perché il loro tasso di suicidi, in costante decremento se pensiamo alla Norvegia, è di gran lunga inferiore rispetto a quello di certe zone dell’area mediterranea.
Ma in fondo, il ricorso ai luoghi comuni è un modo come un altro per rimettere le cose al loro posto, dopo aver tolto un po’ di polvere e salvato le apparenze dietro cifre e statistiche. Cifre e statistiche sintetizzate da quell’insieme di parametri macroeconomici conosciuto con il nome di Prodotto interno lordo, il Pil. È dal 1977, infatti, che, raccomandato dall’Organizzazione delle Nazioni unite e adottato dall’Ufficio statistico delle Comunità europee, il Pil rappresenta l’aggregato di base del sistema della contabilità nazionale.
Pil significa in sostanza reddito e, di riflesso, anche consumo. Ben al di là dei limiti impliciti all’indicatore, il Pil si è però sovraccaricato di limiti esterni, di false intepretazioni, di aspettative mal riposte, giungendo persino a determinare il supposto livello di coesione sociale di un Paese. Da strumento di misurazione è diventato così un obiettivo da raggiungere, e il paravento dietro al quale limitare voci di spesa, massimizzare profitti, valutare l’inclusione attraverso il consumo e, come nel caso dei parametri di Maastricht, ha persino rappresentato uno dei pilastri dell’integrazione economica europea.
Che la situazione non possa più reggere, però, è sotto gli occhi di tutti. I vecchi metodi, basati quasi esclusivamente su indicatori macroeconomici, sono così al centro di nuove polemiche. Ultime di una lunga lista quelle sollevate dagli economisti della Commission sur la Mesure de la Performance Économique et du Progrès Social, coordinata da Jean-Paul Fitoussi, Joseph Stiglitz e Amartya Sen e voluta da Nikolas Sarkozy proprio per mettere a fuoco la possibilità di uscire dalla “dittatura del Pil”, testando il livello di “felicità sociale” attraverso criteri che attengono alla sanità, alla speranza di vita al momento della nascita, all’istruzione, ma valutando anche la partecipazione alla sfera politica dei cittadini, la tutela e qualità dell’ambiente in cui vivono, non trascurando la loro percezione di sicurezza o insicurezza nei rapporti di prossimità.

Piq, prodotto interno di qualità
Se ne può discutere, ma è un primo passo. Anche se siamo lontani da quel Piq, o prodotto interno di qualità, suggerito da Aldo Bonomi nel corso del convegno «La Malaombra. Il pertubante caso dei suicidi in una vallata alpina» tenutosi a Sondrio lo scorso 17 ottobre.
Sondrio e la sua provincia, che le classifiche stilate dagli istituti di ricerca pubblici e privati vedono costantemente ai primi posti per reddito pro capite e potenzialità di consumo (il “famigerato” Pil, appunto), hanno infatti un tasso di suicidi quasi doppio rispetto a quello medio nazionale e costituiscono un banco di prova non indifferente, anche sul piano generale (globale), per la tenuta dei modelli di analisi e di riflessione sul rapporto comunità-individuo nei processi di media e lunga durata.
452 suicidi in 18 anni, 15 ogni centomila abitanti ogni anno: una situazione da brividi che neppure la classifica 2009, pubblicata il 21 ottobre dal Sole 24 e strutturata secondo il Bil o Benessere interno lordo suggerito dalla commissione Stiglitz, contribuisce a chiarire.
Basandosi su otto indicatori, il Bil avrebbe dovuto garantire maggior peso e leggibilità statistica alle “condizioni materiali” di vita ma di fatto, come ha lasciato intuire Albino Gusmeroli, autore con Bonomi della ricerca presentata nel corso del convegno e pubblicata sull’ultimo numero di Communitas, anche questi parametri, essendo prevalentemente modellati sull’accesso individuale ai servizi, hanno scarsa capacità di correlarsi a fenomeni di crisi del legame comunitario e sociale quali il suicidio. Fenomeni che mettono in discussione la natura stessa di quel legame, o quanto meno un certo modo di concepirlo, e coinvolgono piani non strettamente materiali della dimensione, anche economica, dell’esistenza.

Una felcità solo formale
Il limite, quindi, è in un approccio eccessivamente liberal che, se prima negava dimensione politica alla “felicità”, oggi le accorda cittadinanza solo formale. A patto che questa non fuoriesca da un piano che, lo si voglia o no, rimane pur sempre confinato nei limiti dell’individuo. Hanno facile presa, quindi, certe spiegazioni che riducono il suicidio a un mero “problema” individuale. Eppure, come ha osservato nel suo intervento Eugenio Borgna, il suicidio è molte cose, ma forse non è tecnicamente un problema. Se lo fosse, afferma Borgna, «in un modo o nell’altro si troverebbe anche una soluzione, e sarebbe meglio per tutti. Ma, stando diversamente le cose, preferisco parlare di mistero, intendendo per mistero quell’area di indecifrabilità che riguarda ogni essere umano, preso in sé, o nei suoi rapporti con gli altri essere umani».
E come ogni mistero, anche quello di chi si toglie la vita «interroga proprio noi che rimaniamo sulle specificità del nostro essere qui, del nostro rimanere, su natura e sostanza delle forme che ricoprono la nostra convivenza e la nostra libertà». Una libertà che, come nel caso di Sondrio, i parametri economici vedrebbero garantita al massimo grado, dimenticando però, conclude Borgna, che ovunque esistono «aree di libertà assediata, ed è su quelle che dobbiamo concentrarci».
Il caso-Sondrio solleva interrogativi che vanno al di là della specificità di un territorio e attengono al nostro modo di pensare e fare comunità, nelle sue varie declinazioni, ricollocando la «infelicità desiderante e felicità senza desideri nel cuore stesso della nostra necessità di comprendere e agire» (Bonomi). Una comunità che Borgna, forse richiamandosi a Edgar Morin, ha definito «di destino». Indicatori o no, è da qui che bisogna ripartire.

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