Fabrizio ha 15 anni e frequenta il secondo anno delle superiori. Un giorno si è presentato alla lezione di ginnastica con gli occhi lucidi, mi ha detto di aver pianto e che non se la sentiva proprio di far lezione. Aveva assistito al colloquio tra l’insegnante di lettere e suo padre, e le considerazioni sul suo impegno scolastico non erano state delle migliori.
Fabrizio dice che ha un problema di concentrazione, e vorrebbe andare in collegio, così qualcuno «gli sta addosso e lo fa studiare», ma il padre non ne vuole sapere, perché sostiene che se il figlio è capace di concentrarsi sulla playstation può farlo anche su latino e greco. Fabrizio ha un altro problema. Il gruppo dei compagni di classe gli ha assegnato il ruolo di “giullare” e si aspetta da lui che faccia ridere, rivolga domande sciocche ai docenti, da ignorante estremo, che non studia, si inventa tutto e prende in giro i professori. E tutto ciò avviene sulla base di una pressione relazionale molto forte, in cui Fabrizio svolge un ruolo che gli consente di essere accettato: il comico. Fuori dal contesto scolastico è un ragazzo sveglio e intelligente, libero da quel ruolo forzato che gli è stato assegnato. Che fare innanzi a un quadro del genere?
Ho pensato che Fabrizio avesse bisogno di essere riconosciuto, e gli ho assegnato un ruolo di responsabilità: ho deciso che diventi l’accompagnatore ufficiale delle squadre della scuola. In mia assenza è lui il responsabile della squadra, colui che si presenta nella scuola degli avversari, mostra le tessere dei ragazzi che devono giocare, elenca le date di nascita, compila i referti. Le prime uscite sono andate bene. Fabrizio, sotto l’occhio vigile di Arturo, il vero manager, ha conosciuto ragazzi della scuola più grandi di lui, è diventato loro amico e ha cominciato a uscire con loro, anche con quelli dell’ultimo anno che hanno la patente, suscitando le invidie dei compagni. Sta cominciando a capire che per essere accettati non c’è bisogno di fare lo scemo della classe.
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