Cultura

Ritratto tragicomico di una società impazzita

Dietro la festa, il nulla che ci circonda

di Redazione

Uno scrittore può diversamente guardare ai propri personaggi. Li può vezzeggiare criticandoli. O maltrattare anche con affetto. Può mettersi nei loro panni e fingere un’intima comprensione. O scrutarli come un entomologo. O può scegliere di adottare più prospettive, come fa Niccolò Ammaniti in Che la festa cominci. Un romanzo che sorprende pur rifacendosi, in fondo, a un topos fra i più classici: il festeggiamento che si fa macabro e simboleggia il declino di una società. All’inizio rappresentata da due personaggi che più agli antipodi non si potrebbe. Il ragioniere frustrato e satanista (guida le Belve di Abbadon) e il patetico scrittore di successo (di sinistra e così fashion): vite e pensierini in parallelo che convergono nel parco romano di Villa Ada, dove un super-cafone ha organizzato per vip, veline, calciatori e mondani una 24 ore di bagordi. E di autocelebrazioni. Va da sé che, colpo di scena dopo colpo di scena, finirà male. Ma non è questo che in fondo conta. Rileva assai più il ritratto agro, e talvolta feroce, di una comunità impazzita («Il tempo delle figure di merda è finito», dice un personaggio, «morto, sepolto. Se n’è andato per sempre con il vecchio millennio»). Una società che vive, respira e ragiona soltanto alla luce dei riflettori. Che parla e non sa. E che, battuta dopo battuta, svuota di senso ogni parola riducendola a puro significante. Flatus. E nulla più. È un’Italia che in molti conosciamo, purtroppo. E che Ammaniti descrive senza sociologismi. Si limita a entrare ed uscire nei suoi personaggi. A rivelarci i “ragionamenti” più nascosti. A farci toccare con mano l’inconsistenza loro, facendoci anche assai ridere ma sempre con un retrogusto amaro.

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