Non profit

Lettera aperta di Don Mimmo Battaglia

Il presidente di Fict dice la sua sulla «guerra degli oppressi»

di Redazione

Abbiamo ricevuto questa lettera aperta a firma di Don Mimmo Battaglia in relazione ai fatti di Rosarno. La proponiamo in versione integrale.

«Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri».
Sono parole di Lorenzo Milani, drammatiche nella loro attualità. Alla luce di questa posizione, che condivido, gli episodi di Rosarno sono battaglie di una guerra civile, scontri tra parti differenti della stessa patria degli oppressi. Chi più oppresso degli altri? Chi vive in condizioni di povertà estrema, sfruttamento, sottomissione o chi, d’altra parte, ha talmente metabolizzato la sottomissione ai potenti da non riuscire a comprendere l’esigenza di dignità dell’altro e condannarla anche con violenza? E quale violenza è peggiore? Quella della furia cieca degli immigrati africani o quella dell’onore ferito degli abitanti della piana? Domande inutili! La violenza è sempre assurda e inutile, ma la peggiore che scorgo è quella che è venuta prima di tutte: la violenza che non è andata sui giornali ed ai TG, quella “normale” accettata, quotidiana. La violenza di un sistema economico che non conosce più distinzioni tra legale ed illegale, tra umanità e immoralità e, sistematicamente, con fredda programmazione, sfrutta uomini e donne per trarre profitto, per controllare territori, per occupare mercati. Dov’erano i commenti indignati dei signori dei salotti televisivi durante tutti questi anni? Dov’erano mentre dalla Calabria, dalla Puglia, dalla Campania si alzava il grido di aiuto di migliaia di uomini costretti ad una nuova schiavitù? Dov’era la politica, le istituzioni locali, la stampa, quando migliaia di uomini africani attraversavano a sera le nostre campagne per ritornare negli stessi tuguri che oggi meritano la ribalta mediatica? Era davvero necessaria l’emergenza, l’esplosione violenta per rendersi conto, per capire che qualcosa di terribile stava succedendo nella nostra bellissima terra? Dov’era e dov’è la società civile, il sud accogliente che si legge nelle guide per i turisti? È la nostra sconfitta. La sconfitta di tutti.
Nel sogno di un mondo diverso, immagino africani e calabresi, in strada insieme, a ribellarsi con fermezza e senza violenza alle logiche dei poteri mafiosi, alla spietatezza di un sistema economico in cui le donne e gli uomini sono solo numeri, tasselli di un mosaico di profitti, pedine da mettere in qualsiasi posto, senza voce e senza bisogni, senza storia e senza diritti, da caricare su un treno e spostare da qualche altra parte per nascondere un problema. Perché è questo che può fare la retorica della sicurezza: nascondere i problemi. Per affrontarli è necessario ben altro. Serve lavorare alacremente e senza perdere tempo sugli squilibri di un mondo sempre più spaccato, serve chiedersi, con sincerità ed onestà: da cosa scappano queste donne e questi uomini, che ci fa comodo etichettare con la categoria “clandestini”, se persino un capannone gelido e sovraffollato della Piana di Gioia Tauro può sembrare una possibilità di riscatto? Da quali condizioni di vita, di lavoro, di giustizia provengono? E chi le ha generate? La stessa ‘ndrangheta che li ha sottomessi a Rosarno occupa il sistema economico di molti dei loro paesi, le città portuali di molti stati dell’Africa occidentale sono piene di calabresi, messi lì a controllare gli affari delle ‘ndrine.  I loro terreni sono sfruttati dai nostri produttori, minerali, petrolio, prodotti agricoli: tutto nelle mani di pochi europei ed americani. Sono domande necessarie se si vuole evitare che le risposte possibili siano, da una parte, la violenza, dall’altra, il silenzio. Un silenzio colpevole e privo di dignità. Il silenzio di una terra rinchiusa in sé stessa, che ha imparato a convivere con i propri drammi subendoli passivamente, che non sa accorgersi che “il problema dell’altro è uguale al mio”. E anche qui ne usciamo tutti sconfitti. In questa che è la terra del silenzio, del mostro strisciante, della passività, del nulla che avanza e prende spazio. È questa la cosa che fa più male: il silenzio degli uomini giusti, la loro incapacità di ribellarsi, di riprendere in mano la propria storia e la propria terra. Forse dovremmo imparare dagli africani di Rosarno, di Castel Volturno, alzare la testa, ma senza violenza, scoprirci parte di un’unica patria, quella dell’uomo, che è sempre uomo qualunque sia la sua condizione, la sua storia, il suo credo, il suo colore. Si, alzare la testa! E capire che la vera antimafia la si fa con il sangue, con la fatica, con il sudore e soprattutto con una coscienza che sa dire sempre no alla prepotenza, all’arroganza, all’ingiustizia. Non illudiamoci di poter cancellare il “problema” degli immigrati spostandolo da qualche altra parte o scrivendo leggi più dure. L’unica strada per affrontarlo è farlo nostro, costruire giustizia nel nostro paese e, allo stesso tempo, in ogni angolo del mondo. Perché la fame, la paura, il bisogno di una vita dignitosa saranno sempre più forti di ogni nostra legge, di ogni nostra apprensione. Solo insieme, noi e loro, possiamo immaginare un domani.

Don Mimmo Battaglia, presidente Fict

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