Diario di Micol Picasso, coordinatrice Cesvi per emergenza Haiti
Mi sono ritrovata sul ballatoio della mia stanza e dei buffi signori di mezza età in boxer e maglietta scendevano le scale urlando in inglese… I soliti giornalisti, ho pensato. Mi sono guardata: ero in pigiama rosa con pizzi, la mise migliore per un terremoto. Sono rientrata in stanza: la scossa era conclusa, mi tremavano le mani. Mi sono chiesta se era il caso di lasciarsi un po’ andare. Mi sono lavata la faccia ed ero pronta.
Quando ho visto il camion dell’acqua fare manovra, mi sono arresa a tutto ciò che ho imparato sui libri all’università e che non avrei mai potuto applicare in questa circostanza. Il traffico bloccato, parcheggio troppo vicino alla spazzatura (e dove non ce n’è?), rischio di essere investita e ho persino un piccolo battibecco con il mio collega. Dall’esterno, come esercizio, avrebbe meritato 0. Dall’interno e come realtà ha meritato 10.
Il secondo giro è stato molto più tranquillo, abbiamo raggiunto un posto più isolato dove non c’era ancora stata nessuna distribuzione. La gente vociava nella coda, ma i vari leader contenevano le lamentele. Ho fatto un po’ di giri durante la distribuzione. Mi accompagnava Ruby, un omone alto e grosso. Scendo sempre più in basso; dalle due facciate ai lati della strada solo il grigio delle macerie.
Ruby mi mostra le liste delle famiglie. In quel breve tratto di strada, 500 metri, ci sono 3 campi spontanei e circa 400 famiglie. Avete solo dell’acqua? Mi chiede. Solo acqua adesso. Abbiamo bisogno di tende, sapone, secchi, vestiti. Ho pure il coraggio di dirgli: Lo so. Ma non mi è ancora arrivato nulla. Faccio del mio meglio.
Giochiamo con i bambini nel frattempo. Alcuni sanno già il mio nome, che qui e quasi dappertutto si storpia in Nicole.
Avevamo un camion di circa 11.000 litri. Incredibile come si è svuotato in fretta, nei secchielli, bidoni e catinelle della gente. Ma sono fiduciosa: la distribuzione è andata bene (in totale più di 25.000 litri d’acqua) e non ci sono stati momenti di tensione.
Posso tornare in ufficio a lavorare.
Maurizio Barcaro, promotore della Fondazione Lakay Mwe
La missione dista 4-5 Km dall’Aeroporto e da 4 giorni aerei cargo, soprattutto americani, arrivano e partono dalla Capitale in continuazione.
L’aeroporto, che non è poi cosi grande ed ha una sola pista, è congestionato da aerei che scaricano materiale e personale in continuazione.
Siamo al sesto giorno dal sisma e ancora la popolazione…o i sopravvissuti come è il caso di dire, è allo sbando.
Aiuti materiali immediati (cibo e acqua) sono stati sporadici. I problemi logistici sono molti, primo fra tutti la sicurezza nel distribuire i beni e tutti stanno aspettando che entrino in azione i soldati Americani in appoggio per garantire ordine e sicurezza.
Non c’e dubbio che la mobilitazione del mondo intero è massiccia e generosa ma le dimensioni di questa catastrofe sono così enormi che immagino che neppure gli operatori umanitari sappiano come coordinare gli aiuti.
Nel frattempo da tre giorni è cominciato un vero e proprio esodo di gente che lascia la città per paesi di provincia. Con le poche cose che hanno e con qualsiasi mezzo possibile: bus, macchina, camion, nave e anche a cavallo o con degli asini… Questa gente abbandona la città con la speranza che almeno in provincia possa trovare cibo e acqua per poter vivere.
Parallelamente, anche sciacalli e delinquenti approfittano della situazione per derubare e saccheggiare di giorno e di notte. Sanno bene che la presenza della polizia è inesistente e quindi sono loro i padroni della città per ora.
Finora le emergenze sono state : salvare i sopravvissuti sotto le macerie, raccogliere e seppellire i cadaveri, medicare le migliaia di persone ferite e ora speriamo che cominceranno a portare cibo e acqua alla popolazione e poi …si vedrà.
Siamo ancora allo stadio della « sopravvivenza » e parlare di ricostruzione ora è molto prematuro. In città è ancora l’apocalisse: tutte le strutture di base e anche quelle commerciali sono state colpite e nessuno sa quando il tutto riprenderà ad avere una sembianza di normalità.
Il porto (dove arrivava il grosso dei beni di consumo) è distrutto e ci sono ancora macerie e cadaveri dappertutto
Gli aiuti umanitari di prima necessità, benchè siano arrivati in gran quantità, sono stoccati all’aeroporto e non hanno ancora raggiunto la popolazione bisognosa.
Tre quarti della citta è distrutta. La gente è accampata sulle strade e anche se ha dei soldi è estremamente difficile trovare persino uova, riso, fagioli, olio ecc…..
E’ mezzogiorno ora, il sole impietoso e torrido,incurante di quanto è successo continua a infierire sulla gente; elicotteri militari passano in continuazione nel cielo; i mei ragazzi e alcuni professori parlano nel cortile animosamente; i bambini giocano da parte all’ombra del cortile; le donne lavano i panni sporchi e in cucina si prepara qualcosa da mangiare.
La vita in Haiti non sarà più la stessa per nessuno, e la speranza è che da una tale tragedia nasca qualcosa di positivo
Fiammetta Cappellini, responsabile progetto Avsi
La giornata inizia con un forte scossone. Sono alla mia postazione di lavoro, in casa mia, ormai anche del mio collega che non ne ha più una e base di AVSI, accogliente verso tutte le persone che passano. Ogni scossa genera sconforto, pensi alla sorte degli edifici pericolanti e sembra che tutto questo non abbia fine.
Più tardi veniamo a conoscenza del fatto che l’epicentro era la zona di Petite Goave, cittadina a sud-ovest di Port Au Prince, sulla strada per il sud. Lì, nel 2008, l’uragano aveva provocato morte e distruzione.
Molto spesso i bambini dormono per terra e così l’allagamento improvviso ha fatto molte vittime tra loro. Per tutto il 2009 abbiamo fatto compagnia a molti ragazzini, con attività educative e ricreative per il superamento del trauma. Ora dovremo riprendere ricominciando da qui, da oggi, dalla nuova distruzione. Ci vuole una bella dose di coraggio ora a ricominciare da questo luogo. Ci vuole fede, ci vuole certezza, ma quanto dolore…
Intanto a Les Cayes, al sud, dove ieri pomeriggio c’è stata una rivolta nel carcere, la situazione è apparentemente piu tranquilla. Succede però che molte persone uscite dal carcere hanno lasciato la capitale e hanno raggiunto cittadine piu decentrate. Les cayes è una delle piu facili da raggiungere, in 8 ore ci si arriva. Questa catastrofe sta generando un problema di sicurezza anche perché molte persone al margine della legalità stanno “cambiando sede”, divenendo incontrollabili.
Hanno cambiato sede anche quelli che hanno perso tutto. Tornano alle famiglie d’origine, nelle zone rurali. Così, tutte le famiglie di Cayes stanno ricevendo almeno un parente.
Poi c’è un campo sfollati e ci sono i feriti. Si discute di fare enormi campi, forse 13, fuori della città. Così, come prima reazione sembra una soluzione disumana. Seguiremo il dossier, anche per essere al fianco delle persone che albergano nei 2 campi dove noi operiamo.
In uno di questi ho visitato una mamma, rimasta con 8 figli, il marito è morto nel sisma. La ragazzina più grande, 15 anni, partecipava alle nostre attività educative e ricreative e al sostegno scolastico. Ero andata a trovarla subito dopo il terremoto: una tenda fatta di lenzuola, alta 80 centimetri, due metri per tre, ospitava nove persone. Oggi sono stata da lei ed erano sotto il “tendone blu” dell’AVSI.
La ragazzina mi ha detto: «Avevi ragione: siamo vivi e forti, ora abbiamo anche una nuova casa (la tenda). Tutti insieme e appiccicati, ma è bello anche così. Solo che mi devi promettere che verrai a trovarmi tutti i giorni, devi mantenere ancora tante promesse: la scuola e la bambola per la mia sorellina».
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