Mondo
Purtroppo quest’Africa è da mission impossible
Il bilancio amaro di un autorevole intellettuale ugandese
di Redazione

Si era creata un’attesa spasmodica. Ma non basta che un nero vada alla Casa Bianca per risolvere i problemi del continente nero. E i fatti lo confermano Per la maggioranza degli ugandesi il 20 gennaio del 2009 è stato un giorno straordinario, atteso con il fiato sospeso. Era il giorno dell’insediamento ufficiale di Barack Obama, il primo presidente nero degli Stati Uniti d’America. C’era la percezione che stesse accadendo qualcosa di veramente importante per l’Uganda. Io da quel giorno mi rifiutai di essere travolto dall’onda dell’Obama-mania. Da una parte riconoscevo il significato di un nero nel posto di potere più importante al mondo; dal mio punto di vista, il vero valore stava nel fatto che da quel momento in poi nessun obiettivo di tale portata sarebbe più stato considerato irraggiungibile per le persone di colore. Tuttavia, parlando con amici che ancora ritengono questo evento una sorta di rinascita del continente africano, sono rimasto dell’idea che Barack Obama sia stato eletto per essere, prima di tutto, il presidente degli Usa, per raggiungere obiettivi e successi che siano importanti per gli americani, e non per preoccuparsi delle sorti del continente che ha dato i natali al padre. Ho perso l’euforia legata al pensiero di quello che l’Africa potrebbe ottenere grazie alla sua presidenza, perché la considero un’illusione.
Risposi a Kayima che dubitavo che avrei guardato la televisione quella sera. Ma volevo comunque sapere per quale ragione lui ritenesse così importante assistere all’insediamento di Obama. E lo incalzai prendendolo in giro. La sua risposta fu rapida e incisiva: «Siyinza kusubwa byafaayo». Ovvero: «Non potrei mai perdere un evento storico così importante». E subito prese la borsa che aveva con sé e sparì dietro la porta. Anche lui era stato catturato dall’Obama-mania.
Alcune idee erano davvero stimolanti, altre decisamente stupide. C’era chi auspicava che Obama spingesse i dittatori africani a comportarsi meglio o che potesse aiutare gli africani a sbarazzarsi di despoti responsabili del loro impoverimento. Speranze che sembravano trovare ascolto nelle parole pronunciate dal presidente durante il discorso inaugurale: «Chi arriva al potere attraverso la corruzione, l’imbroglio e la repressione del dissenso cammina sul lato sbagliato della Storia».
Una donna di Kogelo, il villaggio dove è nato il padre di Obama, sperava che il neo presidente potesse fare qualcosa per lo stato dissestato delle strade locali, delle scuole e delle strutture sanitarie. Un’altra donna, invece, chiedeva ad Obama di aiutare gli ugandesi a uscire dalla povertà. Tutto questo mi chiarì subito quanto scarsa fosse la fiducia degli africani nei loro capi di Stato e nella loro capacità di cambiare le vite e le condizioni della popolazione. Ma ci preparavano a un’enorme disillusione di massa… Come avrebbe potuto Obama cambiare lo stile dei despoti e di quei rivoluzionari africani incollati al potere? Come avrebbe potuto scavalcare gli interessi del business americano? Sul fronte umanitario, cosa avrebbe spinto gli Usa a cercare un’effettiva efficacia degli aiuti, se vincolati ad assumere esperti americani e di acquistare prodotti americani? Ero cosciente che nessuna di queste speranze si sarebbe realizzata. Nel momento in cui scrivo, nulla di tutto questo è successo. E nulla accadrà. Poveri africani.
Frederick Golooba-Mutebi è Senior Research Fellow del Makerere Institute of Social Research, Makerere University, Kampala, Uganda.
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.