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Iran, il verde e il nero

Una società complessa e in fermento raccontata "dall'interno"

di Redazione

Il verde del movimento di opposizione al regime. Che però non mira a un sovvertimento dell’attuale sistema politico. Il nero delle folle che si recano a pregare e gridano «Huseyn mio amato» battendosi il petto. Due colori simbolo di un Paese che non si piega alle semplificazioni. E cerca una nuova identità Per avere un’idea del popolo iraniano e di ciò che sta vivendo in questi ultimi mesi, bisogna evitare l’errore che si è soliti fare rappresentando e pensando le società dei Paesi in via di sviluppo come un blocco omogeneo con tendenze precise e definite che si scontrano con un’élite più o meno dittatoriale al governo. Questo non è l’Iran. Piuttosto pensiamo a una società moderna sì, ma a macchia di leopardo, il che vuol dire che ad aree urbane moderne, a classi sociali laiche e istruite, a fasce economiche a medio, alto e altissimo reddito, corrispondono aree rurali depresse, dove prevale ancora un’economia arcaica, miseria morale e materiale negli slums delle periferie metropolitane, redditi bassissimi, malnutrizione, analfabetismo, e, ciò che in Occidente è ormai un semplice ricordo del Novecento, una classe operaia con una discreta coscienza di classe.

Le bolle chiuse
Se le case di lusso nei quartieri residenziali delle città iraniane ricordano un po’ delle bolle di benessere in cui penetrano beni di consumo, idee, prodotti e informazioni da Ovest, in compenso queste bolle sono ermeticamente chiuse al resto della società iraniana: si guarda Voice of America con il satellitare, ma non il telegiornale nazionale. È un po’ come vivere all’estero, pur rimanendo in Iran. Il che significa sfruttare alcuni dei numerosi vantaggi che il governo islamico ha negli anni concesso ai benestanti e professionisti del Paese, quali avvocati, medici e imprenditori: nessuna tassa da pagare, discreto aumento di servizi pubblici, bassissimo costo della vita, stipendi equiparati a quelli americani e fino al 20% annuo di interesse sul denaro depositato nelle banche iraniane. Vantaggi che però da soli non bastano per costruire una sentita appartenenza alla nazione, un’idea di patria da amare. Al contrario gli iraniani, soprattutto quelli delle bolle, sembrano essere il popolo meno patriota al mondo. Così l’Iran dentro i salotti arredati con tappeti di seta e poltrone disegnate dai migliori designer occidentali, è descritto come «una prigione da cui è meglio evadere», anche solo per una minivacanza all inclusive in Thailandia o Dubai, mete in voga di questi duri tempi post elettorali.

Dietro il verde
E poi c’è un “là fuori”. È ciò che fa da scenario a queste bolle. È un Iran frenetico, in continua costruzione, che in trent’anni ha subìto una profonda trasformazione sociale. Si tratta dell’Iran che si veste di nero nel mese di Muharram, che proprio in questi giorni sta per terminare, durante il quale cade la ricorrenza dell’ashura, il martirio dell’Imam Huseyn. È l’Iran fatto di folle che si recano a pregare e gridano «Ye Huseyn eshge man» (Huseyn mio amato) battendosi il petto. E poi c’è l’Iran dei giovani studenti islamici, delle famiglie segnate dal lutto per un congiunto divenuto martire nella guerra Iran – Iraq, l’Iran degli operai e delle operaie, l’Iran degli artigiani, l’Iran del clero sciita, e persino l’Iran delle minoranze etnico-linguistiche.
E dunque dove si inserisce, in questo tessuto sociale a macchie di leopardo, il rahesabz, il movimento verde?
Intanto bisogna fare una distinzione: il movimento verde non è né un movimento rivoluzionario né, tantomeno, aspira a cambiare il sistema politico iraniano fondato sul “governo del giurista”, secondo il quale potere religioso e politico sono la stessa cosa. I suoi promotori infatti, da Mir Hossein Mussavi a Mehdi Karroubinon, hanno mai messo in discussione gli ideali rivoluzionari khomeinisti; si tratta, piuttosto, di un movimento spontaneo per i diritti civili che, come dice la ex deputata al parlamento e riformista Jamileh Kadivar, «mira a diffondere la consapevolezza dei diritti del cittadino garantiti dalla Costituzione iraniana stessa ma mai rispettati dal gruppo al governo». L’obiettivo è riportare alla luce la Costituzione esistente senza operare drastici cambiamenti ma migliorando, in senso democratico, ciò che esiste già.
Ma le cose non sono così semplici: il movimento per i diritti civili ha, in questi mesi, raccolto al suo interno frange estremiste, agitatori di ogni tipo, e persino i nemici storici del governo iraniano, i mujaheddin al Khalq, che da trent’anni militano contro l’establishment soprattutto dall’Occidente e che sono stati autori di alcuni atti di terrorismo contro la nazione. Oltre a questi, anche alcuni iraniani delle bolle hanno aderito al movimento, non tanto per difendere la costituzione iraniana, ma per un’idea di libertà “moderna”, simile a quella che Galli della Loggia definiva, riferendosi alla crisi dei valori in Occidente e dell’idea di libertà che vi era diffusa, «sinonimo di consumismo, di carnevale o di free-shop».
Così, in un unico apparente movimento pacifico e nazionalista sono confluite anche forze opposte tra loro, comprese alcune frange estremiste dal carattere violento, il che ha reso il rahesabz, che avrebbe potuto trasformarsi in una battaglia nazionale per la democrazia, in un movimento sospetto ad una parte della popolazione iraniana, quella più conservatrice e tradizionalista. Dopo i disordini avvenuti nel giorno dell’ashura, per esempio, una folla vestita di nero è scesa in piazza per ri-affermare il valore spirituale della ricorrenza sciita del martirio dell’Imam Huseyn contro il movimento verde che avrebbe usato la ricorrenza per creare disordini e dissacrare la figura tanto amata dell’Imam.

Autunno caldo
Per adesso dunque la pace sociale in Iran sembra essere molto lontana, ed è forse l’ostacolo più grande ad una progressiva democratizzazione del Paese, probabilmente anche più del sistema politico iraniano stesso. Come nell’Italia degli anni 70, martoriata dal terrorismo rosso e dal terrorismo nero, da un governo minacciato dalle ombre dei colpi di Stato, degli attentati e dalle stragi di ispirazione neofascista, così l’Iran ha vissuto e sta vivendo il suo “autunno caldo” dopo aver posticipato la soluzione dei propri problemi interni dopo la guerra Iran-Iraq e dopo la ripresa economica e la normalizzazione della situazione negli anni 90. Ora che non c’è più la guerra, ora che in Iran si trova ogni sorta di bene di consumo, e ora che persino il komiteh, ossia i guardiani della rivoluzione che una volta portavano in prigione anche vecchi e bambini se sorpresi ad una festa, o a giocare a carte, o senza il velo islamico, ora che persino loro non dicono più niente alle ragazze truccate e malvelate, o a chi tiene a casa vini e liquori, ora che è diventato quasi “normale” vivere in Iran, è arrivato il momento di decidere cosa farsene della rivoluzione, cosa farsene della religione sciita e cosa farsene, soprattutto, della propria identità iraniana, combattuta tra attrazione per l’Occidente e aspirazioni a qualcosa di diverso, qualcosa di autenticamente e irrimediabilmente persiano.

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