di Paola Menetti
Proprio perché l’immigrazione in Italia è fenomeno complesso, converrebbe, nell’affrontarlo, partire dalla realtà effettiva, piuttosto che da rappresentazioni che la semplificano, quando non ne prescindono del tutto.
In Italia, secondo il Dossier Caritas Migrantes 2009, vivono stabilmente 4,5 milioni di immigrati regolari, il 7% della popolazione complessiva (ma il 10% nella fascia degli under 39 anni). Il loro lavoro produce il 9,5% del Pil, oltre 7 miliardi di euro di contributi versati all’Inps (dei quali, 2,4 miliardi dagli stessi lavoratori), 3,2 miliardi di euro di tasse versate all’erario. In molti settori economici i lavoratori immigrati sono una componente necessaria ed ormai “strutturale” dei processi produttivi, mentre aumenta vistosamente il numero degli immigrati titolari di imprese, con circa 200mila addetti. Sono poi 2,5 milioni le famiglie italiane che hanno in casa una “badante” immigrata, senza la quale non saprebbero come far fronte ai bisogni di cura e tutela dei congiunti non autosufficienti.
È arduo, davanti a questi dati di realtà, non riconoscere in primo luogo la presenza degli immigrati come risorsa positiva, di cui questo Paese ha bisogno e si avvale in modo non contingente né transeunte. Eppure non è quello che sta accadendo. Sgomenta, nel discorso pubblico su cui si sono fondate poi le politiche concrete, questo eterno ritorno al sempre uguale: immigrazione come problema, emergenza, minaccia, invasione. Immigrazione come criminalità. La realtà invece dice che i livelli di criminalità degli immigrati regolari sono sovrapponibili a quelli degli italiani, e che contrastare la clandestinità in quanto prima fonte di criminalità facendo divenire crimine la clandestinità stessa, tagliando alla radice ogni possibilità di regolarizzazione, a nient’altro può portare se non ad alimentare una illegalità più ampia, che prospera in primo luogo sul lavoro nero spesso prossimo allo schiavismo. Questo reiterato alimentare insieme paura, chiusura e rifiuto, questo affermare che «l’Italia non deve diventare una società multietnica», mentre nella realtà lo è già, non fa sentire nessuno più sicuro, ed anzi prepara le condizioni per nuove tensioni e crescenti lacerazioni.
È nell’interesse del Paese e del suo futuro che le complessità e le asprezze che all’immigrazione si accompagnano siano finalmente governate, connettendo rispetto della legalità e diritti delle persone, uscendo dalle sole categorie dell’emergenza e dell’ordine pubblico e mettendo al centro davvero il tema dell’integrazione, con l’obiettivo di costruire nel concreto le condizioni di un rinnovato tessuto sociale e di una più matura convivenza.
Qualcuno ha detto che l’integrazione non si fa per legge. È vero, e nemmeno basta la solidarietà da sola. Servono politiche articolate e coerenti, rispetto alle condizioni dell’abitare, al lavoro, alla tutela della sicurezza nel lavoro, all’accessibilità dei servizi sanitari e sociali. Servono risorse, e non tagli, per la scuola e la formazione, a partire dalla conoscenza della lingua italiana, per i servizi che si occupano delle migliaia di minori non accompagnati che giungono in questo Paese, per i percorsi di vita nelle città. Serve un ben più vivo e concreto dialogo tra istituzioni e soggetti sociali ed economici, un impegno comune, a livello nazionale e nei territori, in un’ottica di sussidiarietà.
La cooperazione sociale a molte di queste politiche può dare un contributo vero, partendo dall’esperienza che ha concretamente maturato, in tutte le realtà del Paese, non solo sul versante dell’accoglienza ma anche su progetti e percorsi di interculturalità, nell’inserimento al lavoro, nella formazione e nella gestione di servizi specifici, quali quelli rivolti ai minori.
Siamo pronti a darlo, nella convinzione che una società capace di accogliere ed integrare piuttosto che respingere e umiliare, sia più giusta e più sicura ed anche più attiva e capace di sviluppo.
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