Cinque anni fa moriva don Luigi Giussani. Di lui porto appresso soprattutto il suo sguardo. Negli anni 70 lo ascoltai più volte predicare gli esercizi spirituali. Citava Leopardi, Pasolini, Kafka. E Pavese: «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?». Poi leggeva il Vangelo, i primi incontri di quei pescatori della Galilea con Gesù. E ti sembrava di essere lì. Ricordo gli ultimi due incontri. Il primo nel 1991. Lavoravo al settimanale Il Sabato e un mio articolo era risultato sgradito in Vaticano. Dai sacri palazzi si preferì inoltrare le lamentele direttamente a don Giussani, che di quell’articolo non sapeva nulla. Mi convocò a Milano. Andai su con la coda fra le gambe. Era una domenica pomeriggio. Non feci nemmeno in tempo a dire «mi dispiace» che lui mi abbracciò, scusandosi mille volte «perché hai dovuto lasciare i bambini piccoli, nel giorno di riposo, per venire qui a Milano…». Poi tirò fuori il suo whisky migliore e mi spiegò cose da me mai più dimenticate, come il valore non estrinseco che ha per un cattolico l’obbedienza al Papa. E altre ancora, più delicate che tengo per me.
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