Presa diretta

Verso il valico di Rafah: palestinesi, non siete soli 

La Carovana solidale promossa da Arci, Assopace Palestina e dalla rete di ong Aoi sta attraversando il Sinai per raggiungere prima la città di Al-Arish e poi il valico di Rafah: «Gaza è una ferita aperta nel diritto internazionale, una prigione a cielo aperto dove la popolazione civile è ridotta alla fame, alla sete, al terrore»

di Anna Spena

In Egitto le temperature, in alcuni momenti della giornata, superano già i quaranta gradi. Il Cario non dorme mai. Polverosa, rumorosa, caotica. Disegnata dai colori della terra. È da qui che è partita una carovana solidale, una missione della delegazione “Gaza oltre il confine, promossa da Aoi (con Acli, Ipsia, Un Ponte Per, Arcs, Ciss, Oxfam Italia, Acs, Cric, EducAid, Vento di Terra), Arci e Assopace Palestina e composta da 11 parlamentari italiani appartenenti all’Intergruppo per la pace tra Israele e Palestina, 3 eurodeputati, 13 giornaliste e giornalisti, accademici, esperte ed esperti di diritto internazionale e cooperazione.

Non per cosa, ma per chi

Per Mohammad che «a Gaza ho cambiato casa nove volte per sfuggire ai bombardamenti. A Gaza non sai mai se vedrai il giorno dopo. Una volta, sotto le bombe con mia madre, pensavamo di morire. Non ci sono vie di fuga, solo rifugi precari. In inverno manca tutto, anche una coperta. Ora siamo vivi e in Egitto, ma continuo a lavorare per chi è rimasto nella Striscia».

Per Suzan Al Amassi, che lavora con EducAid: «Sono una donna palestinese con disabilità e ho vissuto lo sfollamento più duro che si possa immaginare: 18 chilometri a piedi, senza medicine, cibo, né un bagno accessibile. Aiuto altre donne con disabilità a non perdere la speranza. I diritti esistono — ora voglio tornare a Gaza per reclamarli anche lì».  Per i 217 giornalisti e giornaliste uccisi e uccise. A questi bisogna aggiungere altri 48 colleghi e colleghe imprigionati nelle carceri israeliane. Per le oltre 50mila vittime, una stima straziante ma al ribasso. Perché nella striscia di Gaza, da quasi tre mesi, non entra niente. Nè una goccia d’acqua, né un grammo di farina. 

L’importanza di andare compatti, tutti insieme, con il corpo, la spiega Luisa Morgantini, 84 anni, e una tenacia che commuove. È presidente dell’associazione Assopacepalestina ed ex vicepreisidente del parlamento europeo. «Andiamo per chiedere scusa ai palestinesi, perché non siamo riusciti a fermare l’orrore. Vorremmo portare anche i nostri corpi, non solo i nostri pensieri dentro Gaza. Non ce lo lasceranno fare. Ma è importante anche riuscire ad arrivare almeno fino a Rafah per testimoniare l’orrore dei valichi chiusi, con migliaia di camion all’esterno carichi di cibo e materiale sanitario bloccati da mesi perché Israele impedisce l’entrata di qualsiasi aiuto umanitario. Stiamo andando a Rafah perché questo genocidio non è fatto solo di distruzione e uccisioni, ma è fatto anche dalla volontà precisa ed esplicita di voler affamare un popolo, assetarlo, distruggere le scuole, i luoghi di culto: cancellare la vita da Gaza. Muoverci verso quel valico tutti insieme, parlamentari, attivisti, giornalisti, società civile è un modo per dire: basta genocidio. Non riusciremo ad entrare a Gaza, ma i gazawi sapranno che saremo lì, che non condividiamo la complicità dell’Unione Europea e del nostro governo rispetto a quello che è Gaza e sotto gli occhi del mondo. Ma vogliamo anche tenere legata Gaza con la Cisgiordania: sono un tutt’uno e dovrebbero essere, insieme, lo Stato di Palestina». 

Morire di fame

Già dalla fine dello scorso anno «si parlava di apocalisse», dice Walter Massa, il presidente nazionale di Arci, che viaggia con la carovana. «L’ipocrisia e l’indifferenza verso questa tragedia non sono più tollerabili. È importante tenere accesa la luce su quello che sta accadendo dentro la Striscia, in Cisgiordania, e soprattutto quello che sta accadendo al confine, dove da ormai mesi non entra più un aiuto e la popolazione è stremata».

366 chilometri separano la capitale egiziana dal valico di Rafah. 314 i chilometri, invece, che dividono Il Cairo da Al-Arish, la città capoluogo del governatorato del Sinai del Nord. Ma qui lo spazio e il tempo non corrispondono: i checkpoint, i controlli, il passaggio nel canale di Suez, allungano i tragitti.

«È il secondo anno che ripetiamo questa operazione», dice Alfio Nicotera il coordinatore di Aoi per questa carovana. «Stiamo viaggiando nel Sinai militarizzato con l’obiettivo di raggiungere il valico di Rafah. Valico che lo scorso due marzo il governo israeliano ha sigillato. La carestia è ormai sempre più diffusa. Si muore di fame, di sete, di malattie curabili, si beve l’acqua di mare o l’acqua delle fogne. I casi di tifo e di colera si stanno diffondendo. Non possiamo voltarci dall’altra parte, per questo siamo qui, per chiedere al governo italiano, a quelli dell’Unione Europea, di fare ogni cosa per porre fine a questo assedio medievale e disumano e contrario al diritto internazionale. Qui non c’è nessuna lotta contro il terrorismo. Qui vi è un tentativo drammatico di porre in essere una vera e propria deportazione di massa della popolazione civile palestinese dalle sue terre».

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