Yousef Hamdouna

«Nella mia Gaza va in scena la crisi dell’umanità»

di Anna Spena

È nato e cresciuto a Gaza. Lavora con l'ong EducAid. Poco prima del 7 ottobre 2023 era uscito dalla Striscia «per puro caso». La sua famiglia si trova all'interno. A Gaza - dopo un blocco totale degli aiuti imposto da Israele - qualche camion ha ricominciato ad entrare, briciole rispetto al bisogno. «L'uso della fame come arma non può essere compreso se non come parte di un’ingegneria sociale violenta. Tutto ciò è disumano. Nessuno dovrebbe accettarlo»

Yousef Hamdouna si inginocchia e con un gessetto bianco traccia sull’asfalto la sagoma delle magliette e delle tutine per neonati. Mentre lo fa, piange. Alle sue spalle c’è il lato egiziano del Valico di Rafah, chiuso e deserto, quasi spettrale. Da qui, ormai da mesi, non entra più nessun camion umanitario per la Striscia di Gaza. È una mattina di maggio inoltrato, l’asfalto è cocente, il silenzio è rotto solo dalle bombe che cadono, a pochi metri al di là del Valico, sulle teste dei palestinesi. La famiglia di Yousef si trova dall’altro lato della porta. Lui era uscito «per puro caso», come racconta, solo qualche giorno prima del 7 ottobre 2023. Fino a quel giorno viveva tra la Striscia di Gaza e l’Italia. Era, anzi è, il direttore di un centro per disabili dell’ong EducAid. Un’organizzazione italiana che da più di 20 anni opera nel settore dell’educazione, del supporto psicosociale e della promozione dei diritti dei più vulnerabili in diversi Paesi del Sud del mondo. Yousef si gira, guarda il valico e pensa a loro, alla famiglia che è rimasta dentro e «ai miei 30 colleghi e colleghe, tutte persone con disabilità che, senza più mezzi, aiutano i più fragili tra i fragili».

Yousef Hamdouna, Valico di Rafah

Dopo un blocco totale di undici settimane – dal due marzo al 18 maggio – nella Striscia di Gaza le autorità israeliane permettono l’ingresso di una manciata di camion con qualche aiuto umanitario, per lo più farina. I camion passano dal valico di Kerem Shalom, a pochi chilometri da Rafah. Prima del sette ottobre 2023 i camion in ingresso erano 600 al giorno. Siamo lontani anni luce da quei numeri. Le briciole che entrano, rispetto a un bisogno diventato incalcolabile, a volte vengono saccheggiate prima di raggiungere i panifici. Ma non potrebbe essere altrimenti: Israele sta affamando oltre due milioni di persone. E su quei due milioni bombarda incessantemente. Sono oltre 53mila i morti, tra loro più di 20mila sono bambini. Yousef ha solo 43 anni, ma la stanchezza profonda gli disegna il volto. Stretta tra le dita o tra le labbra, c’è sempre una sigaretta. Ha raggiunto il Valico di Rafah con la missione della delegazione “Gaza oltre il confine” (l’abbiamo raccontato qui: “Verso il valico di Rafah, palestinesi non siete soli”, qui: “La carovana solidale da Al-Arish: «Chi resta in silenzio su Gaza è complice» e qui: «Rafah, l’orrore dei valichi chiusi»”), promossa da Aoi (con Acli, Ipsia, Un Ponte Per, Arcs, Ciss, Oxfam Italia, Acs, Cric, EducAid, Vento di Terra), Arci e Assopace Palestina e composta da 11 parlamentari italiani appartenenti all’Intergruppo per la pace tra Israele e Palestina, 3 eurodeputati, 13 giornaliste e giornalisti, accademici, ed esperti di diritto internazionale e cooperazione. Gli stessi che hanno organizzato all’esterno del Valico un sit-in con i giochi dei bambini e i vestitini di cui Yousef ha tracciato la sagoma. Gli stessi che hanno gridato insieme: “Stop all’occupazione illegale”, “Stop al genocidio”, per dire “no alla militarizzazione degli aiuti”, “basta apartheid”, “nessuna impunità per i crimini internazionali”, “stop armi ad Israele”, ma soprattutto “basta complicità”. Sì, perché se l’orrore ha preso forma e corpo dentro la Striscia di Gaza lo ha fatto sicuro del supporto del silenzio di gran parte della comunità internazionale.

Ci racconta un po’ di lei?

Sono nato in un quartiere popolare di Gaza City, vicino al campo profughi di Jabalia. Sono cresciuto in una famiglia numerosa e allargata, eravamo in dodici. Essere il figlio più piccolo di due genitori rifugiati dalla Nakba del 1948, in una famiglia così povera, è stato difficile. Ricordo che da bambino il mio sogno era semplicemente avere un paio di scarpe da ginnastica nuove e chiuse, ma mia madre non poteva permettersele. Mio padre è morto presto. Io ero troppo piccolo e quindi non mi ricordo com’era fatto. Ci ha cresciuto mia madre, da sola. Da bambino ha vissuto la prima intifada, poi gli accordi di Oslo e poi la seconda intifada. Avevo iniziato a lavorare in banca. Ho scoperto presto che quella strada non faceva per me. Sentivo di voler essere più vicino ai bambini. Avevo iniziato a fare il clown di strada. Era un sogno che coltivavo da quando ero piccolo, vedendo i clown in televisione. All’inizio ero un beneficiario di alcuni interventi delle ong che erano presenti nella Striscia, con il tempo ho iniziato a lavorare con loro.

E poi cos’è successo?

Nel 2007 sono riuscito a venire in Italia per la prima volta. Sono partito da Gaza diretto a Rimini per una formazione sull’inclusione dei bambini con disabilità in contesti extrafamiliari. La formazione doveva durare dieci mesi, ma sono arrivato a febbraio 2007 e a giugno 2007 è iniziato l’assedio di Gaza. Sono rimasto bloccato in Italia più a lungo del previsto. Questo periodo mi ha permesso di imparare molto, compresa la lingua italiana. Nel frattempo era nata la mia prima figlia. Quando gli egiziani hanno riaperto il valico di Rafah nel 2010, solo per chi voleva rientrare ma non per chi voleva uscire, ho dovuto prendere una decisione difficile: tornare a Gaza o restare in Italia. Alla fine, siamo tornati io, la mia ex moglie e la mia prima figlia. Poco dopo nascque la nostra seconda figlia e nel 2014, mentre Gaza era sotto assedio, scoprimmo che aveva una disabilità. Decidemmo di tornare in Italia. E io dividevo il mio tempo tra i due Paesi, almeno fino al 7 ottobre 2023.

Fino al 7 ottobre…

Da quella data è successo di tutto e di più. E nessuno riesce a fare niente. E nessuno ne parla abbastanza. Per poterci definire esseri umani dobbiamo fare qualcosa. E quello che è stato fatto è ancora troppo poco, non è abbastanza. Con ogni persona che muore dentro la Striscia di Gaza muore un pezzo di umanità nel resto del mondo. E questo dobbiamo ricordarcelo sempre: ogni giorno, ogni ora, ogni minuto che passa la gente di là (e indica il valico alle sue spalle ndr) continua a subire la fame, continua a morire. Per questo io dico sempre: se a Gaza c’è una crisi umanitaria, nel resto del mondo c’è una crisi di umanità. Tutto ciò è disumano, disumano. Nessuno dovrebbe accettarlo.

I suoi fratelli e le sue sorelle sono nella Striscia?

Sì. E non hanno cibo, non hanno medicine, non hanno più una casa. Noi siamo qui e tra un’ora due milioni di persone potrebbero non esistere più. Due milioni di persone che contano su di noi. Se muore il diritto, se viene calpestato, allora non esiste più niente. Siamo chiamati a difendere la nostra umanità. Ciò che sta accadendo a Gaza non è semplicemente una guerra militare o una tragedia umanitaria, ma un momento cruciale di trasformazione nell’approccio alla questione dei popoli sottoposti a occupazione.

Può spiegarcelo meglio?

Siamo di fronte a un momento storico in cui viene attuata una strategia complessa che mira non solo a smantellare le strutture dei movimenti di liberazione di tali popoli, ma anche a disgregarne la società stessa dall’interno, ricostruendola come una forma fragile, incapace di riorganizzarsi se non secondo le condizioni imposte dall’occupante. Da qui, l’uso della fame come arma non può essere compreso se non come parte di un’ingegneria sociale violenta, attuata attraverso fasi precise e pianificate. Svuotare le aree dal cibo non significa solo affamare la popolazione di Gaza, ma rappresenta allo stesso tempo un atto simbolico e concreto che determina importanti conseguenze. Come il crollo del concetto di sicurezza autonoma: nessuno Stato, nessuna istituzione, nessuna capacità collettiva di sopravvivere riescono a trasmettere un senso di sicurezza. La disgregazione del patto sociale: l’essere umano non percepisce più il proprio ambiente come una “società”, ma come un insieme di concorrenti in lotta per la sopravvivenza. La frammentazione dell’identità collettiva: quando il sistema alimentare crolla, crollano anche i valori della solidarietà e della dignità, e l’individuo comincia a pensare soltanto al proprio “io” affamato. La fame non è solo uno strumento di sottomissione, ma un processo di “frattura interiore” che distrugge la coesione dell’identità individuale e della società nel suo complesso — ed è proprio qui che risiede la pericolosità della fame: non a caso, la starvation della popolazione civile è considerata un crimine di guerra. Nel caso della Striscia di Gaza, essa rappresenta uno strumento per provocare un “cambiamento percettivo forzato” all’interno delle comunità, spostandone il focus e le priorità: dal pensiero rivolto alla liberazione collettiva, al pensiero rivolto alla sopravvivenza individuale a qualunque costo.

Alcuni dei pochissimi camion entrati sono stati saccheggiati

Le cose che dicevamo prima aprono la strada a uno stato di caos interno che può portare ad accettare soluzioni che, prima della crisi, sarebbero state completamente rifiutate, o a negoziare cose prima ritenute non negoziabili. Non solo. Questo porta anche al dissolvimento del legame sociale dei movimenti di liberazione con la popolazione: essi si trasformano da ‘protettori’ a ‘impotenti’, e forse persino ad ‘accusati’. Tutto ciò contribuisce a ridefinire il concetto stesso di autorità e leadership nella coscienza collettiva della società, trasferendo così il potere della ‘leadership politica’ a chi possiede e controlla cibo e acqua. Quando si nega il cibo alle persone e la forza della fame le spinge al saccheggio e al caos, non le si sta solo affamando, ma si compie un’operazione più profonda: si priva quel popolo della propria immagine morale agli occhi del mondo, si costruisce una nuova narrazione secondo cui non è in grado di autogestirsi, e si apre così la strada a una ‘ri-colonizzazione umanitaria’, attraverso una gestione internazionale o araba – in ogni caso straniera – subordinata a specifiche condizioni politiche e di sicurezza. Ci troviamo di fronte a una forma di colonialismo che non impone la propria autorità solo attraverso la forza militare, ma riscrive la struttura psicologica e sociale delle persone mediante strumenti ‘soft’, come la gestione del cibo e il controllo degli aiuti. In questo modo si impone una nuova realtà, presentata come un passaggio necessario per porre fine alla sofferenza della popolazione. Il problema non è solo ciò che sta accadendo, ma ciò che si vuole che diventi. Ciò che sta accadendo oggi a Gaza rappresenta un momento cruciale nella storia palestinese, e forse anche nella storia moderna in generale: è il più grande esperimento di “ingegneria sociale violenta” condotto su un intero popolo, all’interno della propria terra (senza via di fuga) e sotto il giogo dell’occupazione. Il caos attuale non è un effetto collaterale, ma parte integrante di un progetto volto a distruggere la società palestinese dall’interno, per poi ricostruirla o come un corpo senza anima, o come un popolo disposto ad accettare di (soprav)vivere senza alcuna prospettiva politica e senza diritti.

Tutto davanti agli occhi di tutti

Il fatto che tutto ciò stia accadendo in diretta, davanti agli occhi del mondo intero, rappresenta una riscrittura dei concetti e dei principi del diritto internazionale umanitario nella coscienza collettiva delle società. Sta educando le menti delle nuove generazioni a una verità amara: che la legge della giungla è l’unica legge dominante in quest’epoca; che libertà, giustizia e uguaglianza sono utopie platoniche del nostro tempo; che chi osa opporsi all’ingiustizia e alla tirannia subirà ciò che oggi stanno subendo i palestinesi; e che non sono il diritto internazionale umanitario e i diritti umani a determinare il destino dei popoli, ma la forza e gli interessi. Questa grande verità la si sta toccando con mano in una terra che si preferisce percepire come altra, lontana, mentre ci si abitua all’idea che “è una questione troppo complicata” o che “è qualcosa di più grande di noi”. Eppure, queste verità si riflettono anche a livello micro, nelle relazioni tra le persone in ogni parte del mondo, e si manifestano in modo già tangibile nelle nostre società, spesso in maniera inconscia. Ne sono prova il diffuso e indefinito senso di incertezza, la paura del futuro, l’individualismo crescente e l’investimento – globale, nazionale, comunitario – negli strumenti di forza, mentre si screditano quelli del diritto. Per questo motivo, la questione non riguarda solo Gaza o la Palestina, ma riguarda l’intera umanità. Ed è nostro dovere lottare, affinché possiamo restare umani.

Immagine di apertura: Yousef Hamdouna ad Al-Arish. La città egiziana che dista pochi chilometri dal Valico di Rafah

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