Giustizia
Violenza di genere, con pochi pool qualificati in tribunale le buone prassi non decollano
Il monitoraggio del Csm denuncia una situazione in chiaroscuro. L’attuazione delle linee guida e la specializzazione vede i pubblici ministeri più avanti della magistratura giudicante. Apprezzato il contributo del Terzo settore nell’offerta di percorsi di recupero, cosiddetta “fase trattamentale”

Pochi pool qualificati nei Tribunali e nelle Corti d’Appello, buone prassi che stentano a decollare, scarso coordinamento tra gli uffici. È un quadro in chiaroscuro quello delineato dal Consiglio superiore della magistratura-Csm nel monitoraggio (in allegato il testo integrale) sull’attuazione delle linee guida varate nel 2018 e nel 2021 in tema di organizzazione e di trattazione dei procedimenti relativi ai reati di violenza di genere e domestica contro i familiari.
Procedono a rilento sia la creazione di sezioni specializzate negli uffici giudicanti che, soprattutto, la diffusione di pratiche efficaci in materia di valutazione del rischio di ripetizione dei reati, trattazione prioritaria dei casi, protezione della vittima. Indicazioni e suggerimenti concreti, questi individuati dall’organo di autogoverno dei magistrati, che mirano a migliorare i tempi e le modalità di risposta ai femminicidi e agli episodi di maltrattamenti sempre più ricorrenti.
Non è un caso se il rapporto in più punti faccia riferimento alla tempestività. Un provvedimento adottato con un giorno di ritardo può fare la differenza tra la vita e la morte di una donna.
Pubblici ministeri più preparati dei giudici
Il monitoraggio conferma che il processo di specializzazione degli uffici requirenti di primo grado, i pubblici ministeri cioè, può considerarsi sostanzialmente completato in quanto quasi il 90% degli uffici ha previsto un gruppo ad hoc per la trattazione degli affari in materia.
Laddove non è prevista una sezione specifica (15 uffici) dipende principalmente dal numero esiguo di magistrati in pianta organica.
Risulta bassa, invece, la percentuale di strutture che adotta accorgimenti per garantire l’efficace funzionamento dei gruppi specializzati: solo 29 uffici fanno ricorso a criteri di pesatura dei procedimenti in modo da realizzare un effettivo bilanciamento dei carichi di lavoro che, nel caso della violenza di genere, sono notevoli.
La carenza d’organico
La situazione si ribalta (in peggio) negli uffici giudicanti. I dati raccolti dal Csm evidenziano la persistente difficoltà nella realizzazione di sezioni specializzate o di giudici specializzati nella trattazione della materia, sia nei Tribunali (sezioni dibattimentali e sezioni Gip – Gup), sia nelle Corti d’Appello.
La causa? Le «croniche carenze di organico» e l’elevato numero di procedimenti nella materia. Per quanto riguarda il dibattimento, il 78% delle sezioni penali non ha un gruppo specializzato o, comunque, magistrati specializzati per la trattazione dei reati in esame.
Un dato fortemente condizionato dalle dimensioni degli uffici: la specializzazione è presente nell’83% delle sedi di grandi dimensioni e metropolitane (tutte tranne una) contro il 9% di quelle piccole. Il tema della specializzazione e della adeguata distribuzione del personale, spiega il Csm, è strettamente correlato a quello dei tempi di definizione dei procedimenti e alla necessaria celerità richiesta.
«Dal monitoraggio è emerso, infatti, come la specializzazione abbia inciso positivamente sui tempi di trattazione e di definizione dei procedimenti solo allorquando il numero di giudici e di unità di personale amministrativo è stato adeguato al carico, determinando, invece, un ingolfamento delle sezioni e un rallentamento della definizione dei procedimenti nelle ipotesi opposte», spiega il rapporto.

Le buone prassi sono ferme al palo
Sia il pubblico ministero sia il magistrato giudicante devono prestare una attenzione prioritaria alla valutazione del rischio di reiterazione e di escalation delle violenze subite dalla vittima. Ipotesi che, come testimonia la cronaca, sono non di rado alla base degli episodi più gravi.
Purtroppo l’indagine rileva che, sebbene tutti gli uffici giudiziari abbiano attuato misure per assicurare la tempestiva valutazione del rischio, solo pochi hanno adottato le versioni più recenti del protocollo Sara (Spousal Assault Risk Assessment – Valutazione del rischio di violenza domestica) che rappresenta lo strumento di prevenzione più accreditato nella comunità internazionale. Non va meglio per la trattazione prioritaria nella fase dell’udienza preliminare e dei riti alternativi.
Solo il 45% degli uffici ha adottato provvedimenti per garantire la precedenza. Una percentuale che sale al 75% nel settore dibattimentale, peraltro solo nei tribunali più grandi. Emergono criticità anche nella protezione della vittima durante il percorso giudiziario, pensiamo all’assunzione della prova.
La vittimizzazione secondaria da evitare
In questa fase è richiesta infatti particolare attenzione per scongiurare sia ulteriori danni alla persona offesa che entra in contatto con l’ambiente giudiziario (cosiddetta “vittimizzazione secondaria”), sia per ottenere una prova più affidabile perché fornita da un testimone posto nelle migliori condizioni possibili durante la deposizione. Secondo il report l’88% degli uffici giudicanti non ha individuato prassi o orientamenti comuni per l’accertamento o la dichiarazione della particolare vulnerabilità del testimone o della persona offesa.
Da segnalare, peraltro, che quasi nessuno degli Uffici (il 93%) dispone di un albo di periti specializzati nell’assistenza ai testimoni e alle vittime minorenni o alle persone offese di violenza domestica e di genere, né di interpreti specializzati. Per tutte queste ragioni il rapporto raccomanda fra l’altro un maggiore coordinamento tra uffici requirenti e giudicanti, tra settore penale e settore civile, tra uffici ordinari e minorili, tra uffici di primo e secondo grado. Ombre, dunque, ma anche luci.
Il Consiglio superiore della magistratura esprime apprezzamento per il contributo del Terzo settore nell’offerta di percorsi di recupero, cosiddetta “fase trattamentale”, presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati. In particolare, plaude alla buona prassi adottata da alcuni uffici che hanno stipulato accordi con enti territoriali e organizzazioni non profit al fine di rendere fruibili gratuitamente i percorsi trattamentali a prescindere dalla disponibilità economica e dalle capacità reddituali dei soggetti.
In apertura la sede del Csm a Roma, foto di Gustavo La Pizza, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, via Wikimedia Commons
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