Essere padri nella disabilità dei figli. La genitorialità dentro una patologia rara, una disabilità grave è sempre un’esperienza difficilissima, richiede risorse psicologiche enormi, anche se quella persona, quella ragazza, quel bimbo, sono, come si diceva un tempo, “carne delle tua carne”. Alle madri, l’esperienza unica della gestazione, quei nove mesi di vita “tutt’uno” col nascituro in grembo, tempo unico e misteriosamente indecifrabile, dà forse un vantaggio rispetto ai padri, nell’affrontare i bisogni, nel chiedere il rispetto di diritti, nel fare i conti coi i propri e gli altrui dolori. A volte infatti i padri non reggono, si eclissano, “scappano”, si gettano sul lavoro.
Emmanuel Mounier riceveva capi di Stato al cospetto di Françoise, la figlia colpita da una malattia neurodegenerativa, viceversa, Pablo Neruda volle quasi nascondere la piccola Malva Marina, colpita da idroencefalite. In uno dei primi numeri di VITA, intervistammo Rosetta Rota, la vedova di Ennio Flaiano, che ripercorse il rapporto dell’intellettuale con la figlia Luisa, disabile cognitiva a seguito di una grave epilessia. Rota raccontò come il marito soffrisse i pregiudizi che albergavano anche nel mondo del cinema, con il grande Fellini che una volta disse: «Ma perché non la rinchiudono?»
Per questo, con questa serie, vogliamo proprio raccontare i padri dinnanzi alla condizione di questi figli speciali.
(Giampaolo Cerri)
«Io non lo so che cosa significhi essere padre, ma so come non voglio esserlo». Filippo Ruvioli al telefono è così dirompente che vien da chiedersi quanta energia possa trasmettere dal vivo. Ha due figli, Sebastiano, 17 anni, e Orlando, 12. È per affrontare nel modo migliore possibile la sindrome rara e altamente invalidante dal punto di vista cognitivo e neuro-muscolare di Orlando che nel 2015, insieme alla moglie Silvia Braga, ha fondato a Cremona Occhi Azzurri, inizialmente un’organizzazione di volontariato, oggi Fondazione. «Ho visto molti limiti nel modo in cui le generazioni che ci hanno preceduto hanno scelto di declinare il ruolo, cerco di essere una persona diversa», racconta. «Un riferimento di coerenza ma anche di prospettiva per i miei figli, in modo particolare per Sebastiano. Quello che mi piacerebbe che lui assorbisse dal rapporto con suo papà è il fatto che con impegno, passione ed entusiasmo, gli obiettivi si raggiungono. Abbiamo un rapporto di mutuo aiuto, un po’ per necessità e un po’ perché abbiamo visto che funziona».

Ruviolo è fermamente convinto che aiutarsi in una famiglia sia fondamentale e che il rapporto tra un padre e un figlio non sia a senso unico. La prova l’ha avuta cinque anni fa, quando ha perso Silvia, sua moglie. «Quando lei è morta, avevo delle risorse limitate. Gli ho chiesto aiuto. Ricordo di aver promesso a Sebastiano che lo avrei riportato a riva, ma in quel momento mi sentivo in alto mare, avevo bisogno di lui. Sono stato fortunato, ha dimostrato una grandissima maturità. Io la penso così: un padre può dare ai propri figli, più che un insegnamento, una testimonianza. Non ho soluzioni certe, ma posso fargli vedere che cosa faccio e insieme ne possiamo valutarne gli effetti».
Tonalità diverse, stesso colore
È una storia di presenza e impegno per non farsi imbrigliare da un senso di solitudine quella di Occhi Azzurri. «Si chiama così perché è una caratteristica di tutta la famiglia, ognuno con una tonalità diversa, ma tutti con gli occhi azzurri». Essere padre di Orlando che cosa aggiunge rispetto al vissuto nei confronti del primogenito? «Per me si traduce in un fortissimo senso di responsabilità. Di impotenza in una prima fase, quella in cui arriva la diagnosi e la percezione della disabilità diventa concreta. Poi però è avvenuto un passaggio decisivo e mi sono messo nella dimensione del prendersi cura anziché in quella della cura. È diventato gratificante. Orlando non avrà mai risultati omologati a quelli dei suoi coetanei ma questo non toglierà valore ai suoi traguardi né alla mia soddisfazione nel vederlo mentre li raggiunge». Secondo Ruvioli, è una questione di «metro», unità di misura: «Devi imparare a godere di cose piccole che nel quotidiano avvengono. Piccoli progressi di interazione, relazioni che danno indietro molto. Devi però essere nella condizione di capirlo».

È nata da qui l’idea di una fondazione? «Orlando ha una sindrome genetica rara poco affrontata dalla medicina e di cui esiste una scarsa bibliografia. Come famiglia, da subito abbiamo scelto di concentrarci sulle potenzialità anziché sui limiti. Abbiamo attivato collaborazioni, cercato contributi intellettuali e di supporto pratico». Nel 2015, Occhi Azzurri è nata come organizzazione di volontariato: «Volevamo creare un presidio per famiglie come la nostra, organizzavamo un centro estivo per bambini con disabilità in ambito neurocognitivo. Ci siamo resi conto di quanto il fenomeno fosse molto più grande di noi, un centro estivo non bastava. Io faccio l’ingegnere, Silvia era un’insegnante, abbiamo messo insieme competenze e relazioni e siamo riusciti a crescere fino a diventare una realtà accreditata dal sistema sanitario nazionale».
Storia di una fondazione
L’associazione Occhi Azzurri nasce con un obiettivo chiaro: promuovere la crescita e il benessere di Orlando e dei bambini con patologie affini, attraverso la definizione di strategie abilitative e riabilitative volte al raggiungimento delle autonomie personali e delle relazioni sociali, in una prospettiva di vita dignitosa, integrata e inclusiva. Questo percorso di riflessione sul senso e sulle modalità utili a promuovere l’inclusione di minori con disabilità e/o patologie invalidanti, ha condotto Occhi Azzurri a cercare soluzioni che potessero soddisfare i differenti bisogni presenti a Cremona.
Una prima sperimentazione è stata attivata nel 2018 con il centro estivo pensato per quei bambini che non trovavano un’adeguata risposta nelle proposte della città. «Le attività sono state progettate e realizzate in modo sartoriale sui loro bisogni, dalla motricità all’alimentazione, dalla socialità al potenziamento delle autonomie. Il centro ha rappresentato una risposta conciliativa per i genitori preoccupati di offrire opportunità qualificate ai propri figli in un periodo privo di copertura scolastica. È nata una sinergia tra l’associazione e la cooperativa che erogava il servizio».

Da questa collaborazione si è generata un’azione: attivare Cr2, Centro ricreativo riabilitativo che oggi è un “luogo sistemico” in grado di individuare, accogliere e rispondere ai bisogni delle famiglie con figli con disabilità, attivando risorse professionali, accademiche, economiche e relazionali in grado di potenziare esponenzialmente i risultati. «Ci si prende cura delle persone», spiega Ruvioli, «avendo a disposizione competenze e spazi all’avanguardia».
Tenere la rotta, raggiungere riva
Il progetto Cr2 è la riprova che gli ambiti sanitario, educativo e sociale possono integrarsi e ricomporsi dando vita a una formula di presa in carico globale. È stato difficile mantenere la rotta? «Quando Silvia è mancata, ho dovuto per forza affrontare la situazione in autonomia. Non sono un eroe, non ho gestito tutto io. Ho attivato supporti e trovato persone che sono diventate parte integrante della nostra famiglia. Il nostro è davvero un progetto di vita, penso di essere stato bravo a coinvolgere una comunità in cui l’affetto e la qualità della vita sono al centro».
Come promesso, Filippo, Sebastiano e Orlando hanno raggiunto riva. «È ancora una fase in cui devo imparare tanto. È una sfortuna che sia andata così, ma in questi cinque anni abbiamo avuto la possibilità di incontrare persone che si sono avvicinate in modo sincero, persone che ci vogliono bene e alle quali vogliamo bene». Qualcosa, però, questo papà l’ha imparata: «Ho messo via la consapevolezza che la vita è bella. E nonostante tutto, quando capita qualsiasi cosa, se stai su quella pagina lì succede sempre qualcosa che ti permette di costruire l’opportunità di stare bene».

Di padri alla prova con la disabilità ne ha incontrati tanti. «Ci sono papà che non hanno un ruolo nella famiglia per tante ragioni, la disabilità a volte è destabilizzante, può creare separazioni. Alcuni sono molto attivi e partecipi della vita dei loro figli. In tanti si avvicinano alla nostra storia: ascoltandola, prendono un po’ di coraggio perché quello che abbiamo fatto è una roba grossa. Siamo riusciti a invertire le regole».
Le fotografie sono state fornite dall’intervistato e dalla Fondazione Occhi Azzurri
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