Ritratti

Una giornata in un hospice, dove la relazione è cura

di Daria Capitani

L’ospedale San Vito sulla collina di Torino è la sede di due centri della Fondazione Faro, che da più di quarant'anni si occupa di cure palliative in Piemonte. Un luogo carico di autenticità: «Qui cadono le maschere e nessun rapporto resta in superficie. Abbiamo davvero la percezione di poter cambiare la vita delle persone»

Torino in collina è un tripudio di verde. C’è un senso di pace nonostante le auto si inseguano lungo i tornanti. Al confine con Moncalieri, una serie di piccoli cartelli indicano l’ospedale San Vito. Ha il fascino intatto di un edificio elegante immerso nella natura, le vetrate ampie e i corridoi dai soffitti alti. È la sede di due hospice della Fondazione Faro, una storia lunga 42 anni e tutta piemontese, cresciuta attorno all’obiettivo di assistere con cure palliative specialistiche, a casa e in centri dedicati, le persone con malattia in fase avanzata e i loro familiari.

Su uno dei due terrazzi su cui si affaccia l’hospice dedicato a Ida e Sergio Sugliano, un paziente e un visitatore giocano a carte con una vista mozzafiato sulla città, la Mole così vicina che sembra di poterla toccare allungando una mano. L’équipe medica a metà mattina è in riunione, i volontari si spostano tra le stanze, mentre tutti, pazienti e operatori, non resistono alla tentazione di accarezzare Eyra, il cane di una delle operatrici oggi eccezionalmente in visita. Attorno al tavolo grande della sala riunioni al piano terra, ci sono tre persone. Tre punti di vista diversi sulla cura, perché qui, lo ripetono tutti, «crediamo che anche quando non si può guarire, sia sempre possibile curare».

Poter cambiare la vita delle persone

Il primo a parlare è il direttore generale Luigi Stella. «Siamo qui da vent’anni», racconta, «da quando abbiamo realizzato il primo hospice. Occupiamo in comodato d’uso quattro piani della struttura, ora la sfida è diventarne proprietari. Abbiamo manifestato l’interesse all’acquisto rispondendo a un bando della Città della Salute».

Una delle due terrazze con vista.

Stella è in Fondazione dal 2019, prima nel ruolo di direttore amministrativo, dal 2021 come direttore generale. Lo definisce «il lavoro più bello del mondo». Perché?, gli chiedo. «A volte ho l’impressione di nuotare controcorrente, ma ogni volta che visito le camere, passeggio lungo i corridoi e guardo negli occhi gli operatori oltre la mascherina, sento che sto facendo la cosa giusta. Qui davvero si ha la percezione di poter cambiare la vita delle persone». Fa una pausa. «Noi non ci occupiamo della morte, noi ci occupiamo di migliorare la qualità della vita e di tutelare la dignità delle persone, senza mai lasciarle sole».

Un passo dopo l’altro

La Fondazione è nata da un’intuizione (era il 1983) all’epoca pionieristica. «Il professor Alessandro Calciati, uno dei più grandi oncologi torinesi di quegli anni (tra i suoi allievi il professor Oscar Bertetto, attuale vicepresidente della Fondazione, nda), a un certo punto si trovò dall’altra parte della scrivania di uno studio medico: oncologo, sì, ma anche marito della persona malata. Mentre assisteva sua moglie, si rese conto che, se non avesse avuto competenze e disponibilità economica, sarebbe stato un grosso problema. Realizzò che in città mancava una struttura che accompagnasse le persone e le loro famiglie durante la malattia».

A volte ho l’impressione di nuotare controcorrente, ma ogni volta che visito le camere, passeggio lungo i corridoi e guardo negli occhi gli operatori oltre la mascherina, sento che sto facendo la cosa giusta. Qui davvero si ha la percezione di poter cambiare la vita delle persone

Luigi Stella, direttore generale Fondazione Faro

Da qui l’idea di coinvolgere medici e volontari nella presa in carico di questo pezzo, delicatissimo, di vita: «Inizialmente mise a disposizione fondi propri, poi, in un programma radiofonico che andava in onda su una emittente di Nichelino diede il via a quello che oggi definiremmo un progetto di fundraising. Raccolse 5 milioni di lire: nacque Faro, acronimo di Fondazione Assistenza e Ricerca Oncologica, che garantiva in modo gratuito cure palliattive domiciliari».

Una visione che puntava lontano. «Siamo uno tra i primissimi enti in Italia a esserci occupati di cure palliative». Vent’anni dopo, è nato il primo hospice (è al terzo piano dell’ospedale in cui ci troviamo), recentemente ristrutturato. Nel 2008, la firma di un protocollo tra Faro, Compagnia di San Paolo e ospedale Molinette dà il via alla realizzazione di un nuovo hospice (inaugurato nel 2012).

Nel 2016, con le sue ultime volontà, il prof. Alfredo Cornaglia, già responsabile della Radiologia dell’ospedale Molinette, destina alla Faro una parte cospicua del suo patrimonio. Il fondo è vincolato per specifici progetti: «Un iter che ci ha condotto all’inaugurazione nel 2021 dell’hospice “Alfredo Cornaglia” di Carignano, dove a ottobre è stato aperto uno dei primi giardini sensoriali in Italia».

Curare anche la ricerca

Oggi la Fondazione Faro è il primo ente erogatore della regione per quanto riguarda le cure palliative: nel 2024 ha assistito 1.560 pazienti a domicilio e 685 persone nei suoi tre hospice, garantendo in totale 107.839 giornate di assistenza nei territori di Torino, Carignano, Chivasso, Leinì e Lanzo grazie a 182 operatori e 243 volontari.

Il progetto Beauty Faro.

È un servizio gratuito: «Non accettiamo per statuto pazienti paganti. Quando il medico di medicina generale attiva le cure palliative, si rivolge all’Asl di competenza che autorizza, in base a criteri ben precisi, l’inizio delle cure domiciliari o l’ingresso in hospice, dove c’è una lista d’attesa che al momento ha una durata variabile da due a sei giorni».

C’è un altro aspetto che qualifica la Fondazione Faro: la ricerca. «Con l’Università degli Studi di Torino abbiamo stretto un accordo per incrementare l’offerta formativa: con un investimento di 450mila euro reso possibile dal fondo “Alfredo Cornaglia” gestito dalla Fondazione Compagnia di San Paolo, contribuiamo alla copertura economica del master di I livello in Cure palliative e terapia del dolore rivolto a infermieri e fisioterapisti». Non è scontato: «Siamo probabilmente tra i più pronti a far sì che le cure palliative non siano soltanto oncologiche. Il futuro va in questa direzione, ce lo dicono le curve demografiche ed epidemiologiche».

Quanta vita in uno scatto

Ci sono due persone sedute al tavolo accanto al direttore generale. Per ognuna di loro c’è una storia, dentro ne contengono altre.

Elena Timar è la padrona di Eyra, il dolcissimo cane biondo che oggi è passato di qui, è un’operatrice socio sanitaria in forze alla sede di Torino. «Mi occupo di tutto ciò che riguarda l’assistenza base della persona, dall’igiene all’alimentazione alla relazione, che è importantissima». Ci tiene molto a questa parola: «Qui ho trovato un posto in cui si dà tempo e valore alla relazione, non sempre accade nella vita al di fuori. Qui c’è autenticità, si riescono a creare rapporti umani profondi e veri, cadono le maschere, non si resta in superficie. È la relazione che crea un senso di fiducia tra operatore e paziente. È la relazione che ci permette di fare la differenza tutti i giorni».

Lo scatto scelto per la campagna del 5 per mille.

Il volto di Elena campeggia sui manifesti della campagna del 5 per mille, ce n’è uno appeso alla porta: lei sorride accanto a un paziente. A scattare la foto è stato Paolo Saglia: con la sua agenzia, collabora da molti anni con la Fondazione Faro. Oggi però è qui in un’altra veste. Pochi mesi fa ha accompagnato la sua mamma all’hospice di Carignano. «È iniziato tutto nello studio di un’oncologa, dietro la scrivania c’era un cartello: “Il tempo di comunicazione è già tempo di cura”. Ci penso spesso a quella frase».

Le settimane trascorse a Carignano sono un ricordo recente: «La prima volta che sono stato lì con i bimbi (Paolo ha tre figli, nda), abbiamo ascoltato un chitarrista che suonava canzoni a richiesta. Mia mamma cantava Montagne verdi, io grondavo di lacrime». Qualche giorno dopo era Pasqua: «Ci hanno dato la possibilità di utilizzare la cucina e di fare pranzo insieme come se fossimo a casa nostra. Siamo arrivati lì, con la tovaglia a fiori e il pranzo pronto. È stato un momento bello, la libertà di stare in uno spazio che senti anche tuo». Paolo ci ha trascorso molto tempo, «andavo e venivo, lavoravo, ogni tanto mi sono fermato a dormire».

Ha scattato delle foto. Sono bellissime. In una, c’è tutto il mondo appoggiato su un comodino: un vaso di fiori freschi e il ritratto di nonna Anna, felice, insieme ai suoi tre nipoti.

Le fotografie sono di Paolo Saglia per la Fondazione Faro

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