Famiglia

La csr diventa moda.E i danni sono più dei vantaggi…

Viene usata più come strumento di immagine. Con annunci che poi non corrispondono ai fatti. E senza nessun beneficio sulle dinamiche interne. Toni Muzi Falconi

di Redazione

Purtroppo lo avevamo previsto da tempo: la moda della csr dilaga e rischia di produrre per le organizzazioni che la cavalcano danni superiori ai benefici. Quanto di questa deriva vada attribuita a noi relatori pubblici è discutibile, ma è indubbio che il fenomeno ci riguarda da vicino, così come è sicuro che per non buttare via il bambino con l?acqua sporca spetta anche a noi una serena e possibilmente realistica valutazione del fenomeno.
Partiamo intanto dalle ragioni di quei soggetti che nelle ultime settimane hanno avviato, più o meno pubblicamente, un ripensamento rispetto alla recente esaltazione acritica della csr (giornali, associazioni, centri studi, leader di opinione) e proviamo a capirle.

1.Se la comunicazione diventa un fattore prevaricante
è assai diffusa la percezione che la comunicazione della responsabilità sociale sia per molte organizzazioni una pura operazione di immagine e che alle politiche annunciate non corrispondano fatti e cambiamenti reali. A dimostrarlo è il fatto che la stessa responsabilità delle politiche di csr viene assegnata alle direzioni Comunicazione e relazioni pubbliche, funzioni ritenute inadeguate ad incidere sui comportamenti organizzativi, semmai soltanto sulla loro rappresentazione pubblica.
Chi abbia avuto modo di lavorare sul campo sa bene che per una organizzazione il beneficio più duraturo e autentico della rendicontazione delle sue politiche di responsabilità sociale, sta soprattutto nei processi di definizione degli indicatori, della raccolta e descrizione dei comportamenti e nella definizione di nuovi obiettivi da raggiungere al fine di consolidare quella licenza di operare che viene concessa soltanto a una organizzazione capace di comunicare con sobrietà, sincerità e tempestività con i suoi stakeholder, di ascoltarne le aspettative e di assumerle, nei limiti del possibile, come proprie.
Se per mille ragioni, anche nobili o semplicemente razionali e accettabili, questi benefici non risultano immediatamente evidenti allo stesso relatore pubblico coinvolto nel processo, è molto meglio -visto che nessuna legge glielo impone- evitare di sovraffollare l?arena della csr, o perlomeno della sua rendicontazione pubblica, per non coinvolgere nella generale caduta di credibilità dello strumento anche quelli che lo fanno con serietà e con impegno visibile e diretto del vertice e dell?insieme dell?organizzazione.

2. La confusione sugli stakeholder.Con le scorciatoie non si va lontani…
Una seconda questione rilevante è la cosiddetta rappresentatività degli stakeholder. L?allarme lo aveva lanciato già diversi anni fa a Frascati Alessandro Profumo nel contesto di una iniziativa di Cittadinanzattiva. Quali sono i paletti che noi relatori pubblici usiamo per ascoltare gli stakeholder e qual è la credibilità effettiva che quelle aspettative raccolte siano anche lontanamente rappresentative e, quindi, significative?
Nella società politica, la rappresentatività democratica è assicurata dal processo elettorale. Ma, come sappiamo, quella stessa democrazia rappresentativa che andiamo oggi imponendo ad altre culture anche con l?uso delle armi è fortemente in crisi; per non parlare della rappresentatività nel mondo del lavoro espressa dai sindacati; o di quella espressa nel mondo associativo dalle assisi pubbliche sempre meno oceaniche.
C?è chi suggerisce di sostituire questi pur barlumi di rappresentatività (e sono i soli di cui oggi disponiamo: quindi prima di buttarli via…) con nuovi strumenti che vanno dai deliberative polls di Fishmann alla riforma della Costituzione voluta da Bossi, alla demagogia televisiva delle leadership politiche. Temi troppo grandi da scaricare sulle spalle di noi relatori pubblici solo perché veniamo chiamati a fare, come si dice oggi, stakeholder engagement, l?ascolto degli stakeholder di una organizzazione?
Forse sì, ma come possiamo non porci alcune domande? Chi sono gli stakeholder da consultare? Prendiamo ad esempio i fornitori. Diciamo che per una impresa i fornitori sono mille e che l?80% del volume di affari che genero per loro si concentra in 200. Che faccio? Ascolto soltanto questi per alcuni dei quali il mio fatturato rappresenta delle briciole perché sono imprese importanti e influenti e trascuro gli altri 800 per molti dei quali invece il mio fatturato rappresenta il cibo quotidiano per crescere?
E così via per ogni categoria. Come vedete il dilemma è sempre fra la via lunga e la scorciatoia. La prima richiede tempo, applicazione, razionalità; la seconda offre beneficio a breve, influenza, relazione. Non si tratta di problemi politici rilevanti e neppure insormontabili e per ciascun gruppo, con un po? di compiti a casa, potrò individuare criteri accettabili e sensati per avvicinarmi il più possibile ad una equa interpretazione del concetto di rappresentatività.
Ma quanti di noi si pongono questa problematica se la gran parte si limita a chiamare la società di ricerca dicendo: intervistami 50 giornalisti, 100 azionisti, 80 fornitori e, mi raccomando, non fare domande che suscitino risposte critiche che poi devo pubblicarle sul mio triple bottom line…

Una conclusione
Già sarebbe un buon punto di partenza condividere il fatto che stakeholder non è qualifica attribuita dall?azienda stessa, ma è lo stesso stakeholder a ritenersi tale e che quindi è del tutto inutile, superfluo e oneroso andare ad intervistare persone che della mia azienda non sono neppure consapevoli e comunque, anche se lo fossero, non esplicitano interesse a una relazione. Perlomeno si possono evitare scene come questa: un amico assai influente sulla scena pubblica mi incontra per strada e inveisce contro di me urlando: «Maledizione a te e alla tua csr! Soltanto questa settimana ho ricevuto cinque telefonate da altrettante società di ricerca che mi chiedono interviste per conto di altrettante grandi imprese di cui non mi frega nulla, per commentare il loro triple bottom line. Mi fanno perdere un sacco di tempo e ora, per colpa di qualche cretino di pr che non ha fatto i compiti a casa, visto che non posso rifiutare le interviste perché sono amici che non sanno a che santo votarsi, ne parlerò male». Olè! Ben fatto!

Convegno Mondiale di Trieste- I comunicatori parlano delle differenze
«La globalizzazione ha sviluppato la nostra consapevolezza delle diversità assai più di quanto non abbia standardizzato le nostre idee e i nostri comportamenti. Se è vero che le relazioni pubbliche sviluppano le relazioni delle organizzazioni con i loro pubblici influenti e che la più efficace modalità comunicativa è quella con e non quella a, la diversità ne diviene il principale paradigma professionale, teorico e operativo, visto che ogni persona è diversa dall?altra». Inizia così il manifesto del secondo Festival mondiale delle Relazioni pubbliche che si terrà a Trieste dal 27 al 30 giugno prossimi.
L?importantissimo evento è organizzato da Ferpi, la Federazione italiana delle relazioni pubbliche, e dalla Global alliance for public relations and communication management, un?associazione di associazioni che permette ai professionisti delle relazioni pubbliche di condividere idee e migliori pratiche, di cercare interessi e standard comuni, e di comprendere meglio gli aspetti peculiari di ogni cultura in cui si trovano ad operare.
Vita è tra i media partner di questo evento.
Info: www.ferpi.it
www.worldprfestival.org

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