Arte&Cura
La storia di Guido Profili dal manicomio al palcoscenico: così il teatro partecipato dà voce agli invisibili
È partito da Gubbio, con lo spettacolo “39+1”, il cammino della "Compagnia teatrale partecipata della Comunità di Capodarco dell’Umbria" composta da ospiti delle comunità, ballerine, attori professionisti, musicisti, educatori e operatori. Quello in scena è più di uno spettacolo: è la memoria di Guido Profili, "il più uno" tra i 40 martiri, internato per "nevrastenia" e ucciso dai nazisti

È partito da Gubbio, con lo spettacolo “39+1”, il cammino della Compagnia teatrale partecipata della Comunità di Capodarco dell’Umbria. Un debutto fortemente simbolico, denso di significato, perché questa prima messa in scena non è solo un’opera teatrale: è un atto di memoria, una restituzione collettiva di dignità, una dichiarazione politica di presenza e partecipazione. “39+1” nasce da una ricerca storica sulla figura di Guido Profili, una delle vittime dell’eccidio dei 40 martiri di Gubbio, avvenuto il 22 giugno 1944. Guido non era un soldato, non era un partigiano armato, non era un ufficiale. Era semplicemente un uomo, o forse dovremmo dire un ragazzo, segnato dalla fragilità. Suo padre, un noto medico della città, lo fece internare per ventidue anni nel manicomio di Perugia, diagnosticandogli una condizione che all’epoca veniva chiamata “nevrastenia”: un termine ombrello per definire una serie di disturbi oggi considerati più propriamente come espressioni di stress, ansia, depressione. Guido era definito “strano”, “diverso”, non conforme alle aspettative familiari e sociali. Così, per proteggere l’immagine pubblica, il padre lo rinchiuse lontano dagli occhi e dagli affetti.
Eppure, nonostante l’internamento e le violenze fisiche e psicologiche subite, Guido non smise mai di scrivere, di pensare, di sognare. I testi che compongono lo spettacolo sono originali, tratti dai suoi scritti. Parlano di libertà, di solitudine, di un desiderio tenace di vivere e relazionarsi. Quando, nel giugno del 1944, Perugia viene liberata dagli alleati, Guido fugge dal manicomio. Cammina per tre giorni fino a raggiungere Gubbio, in un viaggio che sa di rinascita. Finalmente torna nella sua città, forse sperando in un nuovo inizio. Ma proprio lì, quando tutto sembrava riaprirsi, un destino beffardo lo ributta nel vortice dell’ingiustizia: viene catturato dai tedeschi e ucciso insieme ad altri 39 innocenti, vittime della rappresaglia nazista.
La storia di Guido è una storia che ci interroga. Parla di manicomi, certo, ma anche di invisibilità, di marginalità, di tutte quelle vite che abbiamo imparato a non vedere. Guido era un uomo considerato “matto”, un “più uno” nell’elenco dei quaranta. L’unica volta in cui il suo numero non era quello di una stanza, ma quello di un martire. Morì non da folle, ma da essere umano. E oggi la sua voce ci raggiunge grazie a uno spettacolo corale, potente, che restituisce parola a chi è stato dimenticato.
L’idea dello spettacolo nasce da Andrea Lombardi, esperto di teatro e pedagogista, che ha curato la regia e l’adattamento drammaturgico. La ricerca storica su Guido è stata portata avanti con passione e rigore da Giovanna Perugino, educatrice della Comunità di Capodarco dell’Umbria. Le musiche originali sono firmate da Julian “Julico” Corrardini. In scena, tra gli altri, l’attrice Elisa Gallucci e il corpo di ballo della scuola Danzarte di Gubbio.
Ma “39+1” è molto più di una performance artistica. È il frutto di un percorso collettivo, di un incontro tra storie di vita e vocazioni artistiche, tra vissuti personali e impegno civile. È una compagnia teatrale che non si definisce “inclusiva”, ma “partecipata”. Perché non si tratta semplicemente di fare spazio a chi è “diverso”, ma di costruire insieme – ognuno con le proprie competenze, i propri limiti, la propria unicità – un luogo in cui raccontare il mondo da prospettive nuove. Proprio così si incontrano ospiti delle Comunità, ballerine, attori professionisti, musicisti, educatori, operatori in uno spazio di verità e bellezza.
Lo spettacolo riflette sul tema dell’identità negata, della disabilità come marchio, ma anche come cifra comune. Perché tutti noi abbiamo gabbie, ferite invisibili, momenti di fragilità. Quando ci sentiamo vuoti, quando l’insonnia ci assale, quando ci misuriamo con aspettative irraggiungibili. La disabilità, allora, non è più solo dell’altro: è anche nostra. E nel momento in cui smettiamo di provare pietà per chi è diverso e iniziamo a riconoscerlo come parte della nostra umanità condivisa, allora qualcosa cambia.
“Più di ogni altra cosa – scriveva Guido – occorre il libero esercizio della propria volontà, l’attività e l’energia personale che formano la vera personalità dell’individuo”. Un’affermazione forte, che interpella tutti, al di là delle diagnosi e dei ruoli. È questo lo spirito con cui la compagnia intende proseguire il suo cammino: fare teatro non per “integrare”, ma per partecipare. Non per assistere, ma per creare. Non per aggiustare lo sguardo, ma per trasformarlo. Il tema della libertà insegue tutta la storia, una libertà negata, desiderata, conquistata che si riassume in un pensiero di Luis Sepúlveda che diceva che “La libertà è uno stato di grazia. E si è liberi solo mentre si lotta per conquistarla”. Una frase che si incolla alla pelle, che rende il dolore di Guido e di tanti altri non un ricordo del passato, ma una questione viva, urgente, contemporanea.
Oggi ci sono già nuove repliche in programma in diversi teatri d’Italia. Ma più ancora del calendario, conta la direzione. “39+1” ha dimostrato che è possibile costruire una compagnia teatrale capace di tenere insieme qualità artistica e profondità umana. Ha mostrato che i corpi e le voci di persone con disabilità, o meglio, di persone con storie diverse, possono dare vita a un racconto autentico, emozionante, universale.
Raccontare la storia di Guido è un modo per raccontare anche le nostre storie. Per ridare nome, volto, dignità a chi è stato messo da parte. Per ricordarci che ogni essere umano ha diritto a uno spazio in cui respirare, sognare, essere felice. Anche solo per un istante. Ed è possibile farlo solo insieme, come parte di un’umanità che si riconosce Comunità. Una moltitudine che non lascia indietro nessuno.
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