Pacifismo
Alex Langer e la Bosnia: storia di un impegno incessante
Questi sono i giorni che portano alla memoria il genocidio di Srebrenica; pochi giorni prima, trent'anni fa oggi, Alex Langer aveva deciso di abbandonare la vita. Politico, saggista, costruttore di ponti, i suoi testi sono un faro nel mondo attuale, segnato da conflitti e crisi. Il dramma bosniaco è intimamente intrecciato con l'impegno, civile, umano e politico del "saltatore di muri" sudtirolese. Alex aveva dato tutto quello che poteva dare per fermare o almeno rallentare la corsa verso il baratro che si stava consumando nella ex-Jugoslavia

È un ingorgo di pensieri quello che a inizio luglio, ogni anno, occupa la mia mente. Sono i giorni che portano alla memoria del genocidio di Srebrenica; pochi giorni prima, trent’anni fa, Alex Langer aveva deciso di abbandonare la vita.
Il dramma bosniaco è intimamente intrecciato con l’impegno, civile, umano e politico del “saltatore di muri” sudtirolese. Alex aveva dato tutto quello che poteva dare per fermare o almeno rallentare la corsa verso il baratro che si stava consumando nella ex-Jugoslavia. Non perdeva occasione, seppure nel suo stile pacato, di esprimere forti e motivate perplessità nei confronti di chi, anche all’interno del movimento ecologista, appoggiava e, a volte, cavalcava le rivendicazioni secessioniste delle repubbliche federate. Era consapevole che la deriva etno-nazionalista avrebbe potuto provocare conseguenze devastanti. Quello che si stava consumando nei Balcani, d’altronde, lui l’aveva vissuto e lo stava vivendo sulla sua pelle nella terra d’origine. Il dialogo interetnico e interculturale per lui era una professione di fede. Quando agli inizi degli anni novanta con la deputata austriaca di origine croata Mariana Grandits provammo a gettare le basi di quello che poi sarebbe diventato il “Forum per la Pace e la Riconciliazione nella ex Jugoslavia”, grazie all’appoggio fondamentale della Casa della Nonviolenza a Verona, l’intento era proprio quello di ristabilire un canale di comunicazione fra i pezzi di una società civile sconvolta e travolta da un torrente in piena di odio atavico e irrazionale. Oggi Alex passa idealmente per “costruttore di ponti” ma allora quei ponti lui era riuscito a costruirli davvero anche tecnicamente affidandosi al supporto delle compagnie telefoniche europee che di rimbalzo facevano da relais alle reti frantumate dei nuovi stati balcanici. Gli esponenti del mondo non governativo di Bosnia, Croazia, Kosovo, Macedonia, Montenegro, Serbia e Slovenia erano, così, tornati a parlarsi dapprima alla cornetta del telefono e, in seguito, ad incontrarsi anche fisicamente nella città scaligera per provare a dare una prospettiva di pace all’intera regione.
“L’Europa muore o rinasce a Sarajevo” era la lettera che un nutrito gruppo di europarlamentari aveva sottoscritto rivolgendosi ai leader europei riuniti in Francia, a Cannes, alla fine di giugno del 1995. “Basta con la neutralità tra aggrediti ed aggressori, apriamo le porte dell’Unione europea alla Bosnia, bisogna arrivare ad un punto di svolta!” iniziava perentorio il documento che Alex Langer era riuscito a consegnare a Jaques Chirac, il presidente del paese che in quel periodo deteneva per rotazione la presidenza semestrale dell’Ue. La capitale bosniaca era sotto assedio dall’aprile del 1992 con i paramilitari serbi di Ratko Mladic che martellavano incessantemente con gli obici e le mitraglie la popolazione civile. Ci arrivavano appelli disperati da chi si trovava sotto le bombe. Rompendo ogni indugio Langer si era pronunciato per un robusto intervento di polizia internazionale possibilmente sotto l’egida delle Nazioni Unite già impegnate sul campo ma inefficaci per le limitate regole di ingaggio. I pacifisti sia italiani che europei, di fronte all’ipotesi di un intervento militare, si erano spaccati. La stampa italiana d’area aveva pesantemente attaccato Alex per le posizioni che aveva assunto relegandolo al banco degli imputati. L’Europa era ripiombata nell’incubo della guerra ma assisteva passiva, incapace di produrre un’iniziativa credibile che ponesse fine al macello. Langer, tuttavia, insisteva e non si dava per vinto tentando disperatamente di individuare qualche spiraglio di pace. In Bosnia aveva resistito un’isola di convivenza nel marasma che aveva spazzato via ogni regola del consorzio civile. In particolare a Tuzla, nella parte settentrionale del paese, bosgnacchi, croati e serbi continuavano a vivere pacificamente insieme come avevano sempre fatto ovvero accettandosi, riconoscendosi e rispettandosi a vicenda nonostante tutto. Con Selim Beslagic, il sindaco della città, Alex Langer aveva promosso un tour europeo toccando le principali città del vecchio continente per offrire un modello di società bosniaca antitetico ai proclami feroci dei leader nazionalisti, impersonati da Franjo Tudjiman, Slobodan Milosevic e Radovan Karadzic, che a quell’epoca avevano preso il sopravvento nei Balcani accreditandosi presso le diplomazie internazionali. Grazie all’impegno di Langer, più volte Beslagic era stato ospite del Parlamento Europeo per raccontare una Bosnia diversa, un paese che era ancora capace di scavalcare le barriere dell’esclusivismo etnico identitario e suprematista. Le gabbie etniche contro le quali Alex si era battuto in Sud Tirolo, tuttavia, sono diventate le fondamenta sulle quali è stata edificata la Bosnia-Erzegovina attuale con gli accordi di Dayton che nel 1995 hanno sì sancito la fine del conflitto ma hanno prodotto uno stato disfunzionale e istituzionalmente insostenibile. Quegli accordi hanno ingessato le fratture etniche senza riuscire a sanarle. Sono poche le tracce rimaste di quella che era una società multietnica, multiculturale e multireligiosa in grado di costruire un futuro comune.
Da quest’anno l’11 luglio è diventata ufficialmente la “Giornata internazionale di riflessione e commemorazione del genocidio di Srebrenica del 1995“. Lo ha stabilito l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo scorso anno adottando una risoluzione fortemente osteggiata dalla Serbia, coadiuvata dalla Russia. Nonostante gli inequivocabili verdetti della Corte di Giustizia Internazionale e del Tribunale Internazionale per i Crimini nella ex Jugoslavia Belgrado continua a negare il genocidio declassando i tragici fatti di Srebrenica a uno degli innumerevoli eccidi commessi durante il conflitto bosniaco da tutte le forze presenti sul campo. Aleksander Vucic, l’attuale presidente serbo ex ministro negli anni di Milosevic, non accetta che le colpe ricadano solo sul suo paese diluendo, di fatto, le responsabilità su tutti i contendenti. Un modo come un altro per assolvere la Serbia respingendone il ruolo dell’aggressore. La Bosnia Erzegovina, intanto, è di nuovo vittima di una crisi costituzionale che rischia di condurla al collasso definitivo. Non passa giorno senza che Milorad Dodik, il presidente della Republika Srpska, una delle due entità che compongono il complesso edificio istituzionale dello stato bosniaco, non perda occasione, con la regia di Mosca, per minacciare il distacco definitivo da Sarajevo. La memoria di Alexander Langer, però, è ancora viva e presente. Nel maggio di quest’anno il cantone di Sarajevo ha ufficialmente conferito a Langer la cittadinanza onoraria postuma. Nel febbraio del 2021 era stata la città di Sarajevo a insignirlo dell’onorificenza mentre nell’ottobre del 2022 a farlo era stata la città di Tuzla. E proprio nella piazza principale di Tuzla, e non poteva essere altrimenti, svetta un tiglio, pianta sacra nella tradizione pre-cristiana dei popoli slavi, messo a dimora nel 2015, a vent’anni dalla scomparsa, con a fianco la targa di dedica a “Alex Langer, amico di Tuzla”. Tante sono le formulazioni adottate per definire Alex, da “portatore di speranza” a “esploratore di frontiere”. Per me è stato e rimane un “utopista concreto”.
PS A chi volesse rileggere gli scritti di Alex Langer sul conflitto in Bosnia Erzegovina e nei Balcani consiglio il libro “Quei ponti sulla Drina” (2020, Infinito Edizioni), magistralmente curato da Edi Rabini e Sabina Langer. A più di trent’anni di distanza sono ancora, purtroppo, di stringente attualità.
Foto: lunedì 29 marzo 1993, più di 2mila rifugiati dall’enclave musulmana assediata di Srebrenica arrivano su un convoglio delle Nazioni Unite, a Tuzla/AP/Michel Euler, file/LaPresse
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