Il caso Milano
Bertram Niessen: «La città dei (buoni) servizi? Sì, ma non siamo solo clienti»
Riproponiamo qui l'intervista pubblicata nel numero che VITA ha dedicato al capoluogo lombardo "Milano double-face". "Partecipazione", questa la parola chiave al centro del dialogo con il progettista culturale che ha basato la sua attività sulla cultura collaborativa

Nel 2012 ha fondato CheFare, un’agenzia per la trasformazione culturale basata sul principio della cultura collaborativa. Il suo ultimo libro è Abitare il Vortice. Come le città hanno perduto il senso e come fare per ritrovarlo (Utet 2023): un richiamo diretto a Milano, la sua città di adozione da 27 anni a questa parte. Bertram Niessen, nato a Grosseto nel 1979, infatti a Milano ci è arrivato per scelta. Sposato, abita in zona San Siro di fronte alle case popolari di piazza Selinunte. «Sono finito qui, perché gli affitti sono ancora abbordabili, ma non sono per nulla certo di rimanerci a lungo».
Perché?
Io non ho un brutto stipendio, guardando alle medie italiane. Ma in questa città se non hai una rendita alle spalle fai molta fatica. A meno di non guadagnare cifre davvero notevoli. Questo è l’aspetto economico. Poi c’è quello sociale. Già dagli anni precedenti al Covid è stato chiaro che Milano è una città dove il turnover ha una dinamica sempre più precisa: escono i poveri (o i meno abbienti, classe media inclusa) ed entrano i ricchi. Questo ha due conseguenze di cui si parla molto poco: drena ricchezza da altre aree del territorio nazionale e esclude tutta una fascia di persone, che poi è quella che frequento io, che si occupa di arte, cultura e sociale, che ormai a Milano viene per lavoro fermandosi una notte e poi scappa.
Per andare dove?
In altre città, non certo nell’hinterland o nei paesini del Mezzogiorno a fare south working. Cercano uno stile di vita metropolitano, ma più sostenibile. Torino, Bologna, ma anche Genova e Napoli sono posti interessanti. Lo era anche Roma, ma bisogna capire cosa succederà col Giubileo.
Cos’è il vortice che dà il titolo al suo libro?
Il “vortice” è la complessità in movimento. E in Italia Milano è certamente la città più complessa e dal movimento più rapido.
Qual è oggi il “senso” di Milano?
Domanda difficile. Milano sta perdendo senso per tutti quelli che non “stanno in cima”. Questo determina una crisi profonda del senso condiviso della città. Sempre di più sta diventando un posto per city users. Si arriva, si succhia quello che serve e si va via. Non a caso Milano nei fine settimana e nei ponti si svuota. Soprattutto nei quartieri più abbienti. È una cosa che impressiona. Ed è un fenomeno tipico. In altre città non capita. Il fine settimana è il momento in cui godersi la città. Non quello della “grande fuga”. Milano, ma anche in altri luoghi, penso a San Francisco o a Francoforte, in questi anni si è fondata sull’equiparazione fra la dimensione di “utente” di servizi e quella di “cittadino”. Questo ha prodotto servizi sempre più efficaci, ma ha annichilito la dimensione partecipativa dei suoi abitanti. Questo malgrado il fatto che a livello lessicale di “partecipazione” si parli tanto. Eppure è chiaro ed evidente che il meccanismo è questo: io ti do la possibilità di scegliere fra un set di servizi di buona qualità, ma preconfezionati. In sostanza è una forma di esercizio di potere top-down.
Perché non funziona?
Le faccio un esempio in ambito culturale: all’apparenza a Milano c’è una grandissima proliferazione di attività culturali.
In effetti è così: la scelta è davvero ampia…
Sì, ma con tre grandi limiti. Il primo è economico: la cultura a Milano costa più che altrove. Il secondo riguarda la qualità. A Milano si fanno sempre più o meno le stesse cose in base alle medesime dinamiche. La vera innovazione ha molto poco spazio. Terzo punto, la vita culturale si sviluppa in alcune aree geografiche ben precise: il centro o quartieri “alla moda” come Nolo. Nelle periferie arriva poco o nulla. E soprattutto non viene valorizzato quello che nasce in periferia. Ancora una volta manca la dimensione partecipativa. Giusto per fare un paragone: a Bologna, che è grande un quarto, ci sono venti volte i concerti indipendenti che ci sono a Milano in un anno. A Torino fra case di quartiere, nuovi centri culturali e circoli Arci praticamente hai qualcosa ogni 500 metri. Quello che manca è questo: gli spazi per la cultura di prossimità dove dare ossigeno a progetti anche di altissima qualità e di respiro internazionale. Per farlo occorre avere un pensiero relazionale. Il meccanismo “pago, entro, vedo e me ne vado” non regge più.
Come creare le condizioni dello sviluppo di un welfare culturale partecipato?
Il primo nodo è il costo delle abitazioni. Vale per i privati, ma anche per le associazioni. I prezzi sono talmente elevati che se vuoi creare uno spazio di prossimità, poi sei costretto a vendere la birra a 7 euro. E se fai questi prezzi, una certa fascia di persone non la intercetti, è tutto connesso. La soluzione? Secondo me occorre aprire una grande riflessione sull’abitare cooperativo. È quello il modello che propone rispetto più realistiche alle nostre esigenze.
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