5 per mille, ma per davvero
Via il tetto al 5 per mille? Nessun rischio per il bilancio dello Stato
«Il mantenimento del tetto si giustificherebbe con l’esigenza di contenere la spesa pubblica. Un’argomentazione che non è per nulla convincente se applicata al 5 per mille». L'intervento del tributarista dell'università Cattolica a sostegno della campagna "5 per mille, ma per davvero" promossa da VITA e 65 fra le maggiori organizzazioni del Terzo settore
di Marco Allena

Come capita oramai da qualche anno, con l’avvicinarsi del termine per la presentazione delle dichiarazioni dei redditi torna al centro del dibattito il meccanismo del 5 per mille con particolare riferimento al tetto di spesa previsto per le risorse reperite attraverso la sua applicazione. Se ne era parlato da ultimo lo scorso autunno, in vista della manovra finanziaria, allorquando era parso vi potesse essere un ripensamento (se non un superamento) di tale tetto. Poi nulla. Proviamo a fare ordine sul tema.
Il 5 per mille è stato introdotto in via sperimentale con la legge finanziaria del 2006, e reso strutturale con la legge di stabilità del 2015, per poi venire definitivamente regolamentato dal Dpcm 23 luglio 2020, che ne ha individuato beneficiari, modalità di accesso e obblighi di rendicontazione e trasparenza. Non è (soltanto) un modo per destinare risorse finanziarie ad enti meritevoli, ma un meccanismo che risponde ad esigenze ben più “alte”. Se non altro perché rappresenta una delle principali forme di fiscalità partecipativa del nostro ordinamento.
Ispirato al principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118 della Costituzione — principio di chiara matrice cattolica, che affonda le sue radici nel pensiero di San Tommaso e nella idea di azione umana finalizzata al bene comune — il 5 per mille consente ai contribuenti, attraverso una libera scelta da esercitarsi nella dichiarazione, di destinare una quota dell’Irpef a favore di enti che svolgono attività di interesse generale.
Siamo di fronte, dunque, ad un istituto oramai integrato nel sistema tributario, capace di incarnare pienamente un modello di partecipazione civica allo sviluppo della comunità sociale, in cui l’autonoma iniziativa e scelta dei cittadini e delle organizzazioni sociali trova uno spazio concreto nell’ordinamento tributario. Un modello da non confondere, val la pena precisarlo, con l’8 per mille, anch’esso basato sulla destinazione volontaria di una quota dell’Irpef, ma rivolto al sostegno delle confessioni religiose e attuativo di altri principi costituzionali.
Il problema attuale del 5 per mille, come anticipato, è quello del tetto di spesa. Sin dai primi anni di applicazione, lo Stato ha introdotto un limite massimo alle risorse complessivamente erogabili: inizialmente fissato a 250 milioni di euro, esso è stato poi innalzato a 400, e infine a 525 milioni — a conferma del progressivo successo che l’istituto ha avuto. Tale limite si giustificherebbe, quantomeno da un punto di vista meramente formale, esclusivamente con l’esigenza di contenere la spesa pubblica: in effetti, trattandosi di somme che lo Stato “cede” volontariamente a enti terzi, rinunciando a parte del proprio gettito, l’introduzione di un tetto dovrebbe servire ad evitare impatti eccessivi e imprevedibili sul bilancio statale. Ora, questa argomentazione — alla quale purtroppo siamo abituati nella materia tributaria, e che assume talvolta la configurazione di “ragion fiscale” o “interesse fiscale” — non è convincente se applicata all’istituto in esame.
Il tetto di spesa rappresenta, infatti, una contraddizione interna al meccanismo stesso: a tacer d’altro, tradisce lo spirito di sussidiarietà che lo anima e snatura la libertà di scelta del contribuente. Esso produce effetti distorsivi su tre livelli. Anzitutto, penalizza i destinatari “primi” delle risorse — gli enti beneficiari — che, pur legittimamente individuati dai contribuenti, non ricevono l’intero importo spettante. In secondo luogo, danneggia i destinatari ultimi, vale a dire cittadini e comunità che beneficiano concretamente delle attività degli enti. Infine, tradisce le scelte direttamente compiute dai contribuenti, che — esercitata consapevolmente un’opzione legislativamente garantita nel solco dei principi costituzionali — vedono disattesa la propria indicazione. In questo senso, il tetto di spesa non solo appare incoerente rispetto alle finalità originarie della norma, che peraltro hanno negli anni trovato unanime consenso anche politico, ma finisce per porre anche dubbi di legittimità costituzionale.
Se è vero infatti che il 5 per mille è nato una ventina di anni fa quale concreta applicazione del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 della Costituzione, la vanificazione delle indicazioni operate dai contribuenti si pone in contrasto proprio con tale principio — oltre a violare l’affidamento che il cittadino pone nello Stato nel momento in cui effettua una scelta che poi verrà disattesa. In un contesto in cui la partecipazione del contribuente è sempre più diffusa e apprezzata, e alla luce di una riforma fiscale (quella in corso, avviata dal 2023 e che tanti risultati sta ottenendo) che si muove nella direzione di un rapporto fisco–contribuente paritario e ispirato alla buona fede, il tetto di spesa va eliminato.
Questo contenuto è tratto dal numero di VITA magazine “5 per mille, ma per davvero” è stato eccezionalmente reso disponibile a tutti e tutte, se apprezzate il nostro impegno, se volete supportarci e sostenere la campagna, abbonatevi a VITA.
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