Strage di Bologna

Io, autista dell’autobus n. 37

Sono passati 45 anni da quel 2 agosto 1980 quando alla stazione di Bologna esplose un ordigno che provocò la morte di 85 persone e il ferimento di oltre 200: il più grave attentato terroristico del Paese. Agide Melloni è l’autista dell’autobus n. 37 che trasportò per tutto il giorno i corpi delle vittime dalla stazione alla camera mortuaria: «Per 20 anni non ho raccontato nulla. Ma i giovani hanno diritto di sapere»

di Gilda Sciortino

Manifestazione commemorativa per il 44esimo anniversario della strage alla Stazione Centrale di Bologna (Italia) Venerdì, 2 Agosto 2024

«Una accanto all’altra, non certo accatastate come magari sarebbe successo in altre occasioni. Così abbiamo adagiato le barelle con sopra i corpi di chi aveva perso la vita nell’esplosione. È stato il nostro modo per dare affetto a coloro che per noi erano degli sconosciuti: senza avere bisogno di dircelo a vicenda, volevamo ridare a quei corpi quella dignità che era stata cancellata dai terroristi con la bomba. Perché ve lo dico senza timore di smentita:rerano corpi assolutamente devastati, quasi del tutto irriconoscibili».

Sono passati 45 anni da quel 2 agosto, ma i ricordi vividi di Agide Melloni sono ancora vividi, ben impressi nella memoria. Ce li regala come un fiume in piena, trasmettendo anche con numerose pause, durante la quali sembra trattenere il respiro, le rincorse che la mente deve fare quando vorrebbe passare da un’immagine all’altra provando a evitare quelle infelici. Ovviamente senza riuscirci.

Lui era l’autista dell’autobus n. 37 e il 2 agosto 1980 andò avanti per tutto il giorno a trasportare i corpi delle vittime dalla stazione di Bologna alla camera mortuaria, fino alle prime luci dell’alba del giorno dopo. Non il servizio di linea consueto, ma una ardua spola con il compito di proteggere dei passeggeri particolarissimi. E farlo nonostante il momento non lasciasse spazio ad altri sentimenti, se non alla disperazione e alla rabbia. In tutto furono 85 i morti e oltre 200 i feriti: la strage di Bologna fu il più grave attentato terroristico commesso in Italia nel secondo dopoguerra, che viene ricordato non solo attraverso il dolore dei familiari delle vittime, ma anche grazie alla testimonianza di chi era presente e ha prestato soccorso alle vittime.

Che cosa ricorda di quel giorno?

Quel 2 agosto del 1980 rientravo in servizio dopo le ferie estive e immaginavo di avere davanti a me una giornata allegra, avevo voglia di ritrovare i colleghi, gli amici, per raccontare loro un’esperienza che oggi non è nulla di straordinario, ma in quegli anni era inusuale. Ero stato in vacanza in Albania e a quei tempi non era così tanto facile. Desideravo socializzare, raccontare tutto quello che mi aveva riempito di bellezza gli occhi e l’anima. Avevo il turno che cominciava molto presto, alle 5 del mattino. Avrei staccato intorno alle 13 o poco più. Mi ero fermato per una piccola pausa, proprio insieme agli amici e mi avviavo a ritornare in stazione, alla guida dell’autobus.

Alle 10.25 stavo arrivando in stazione, ero su un ponte che sovrasta tutta l’area della stazione, quando sentimmo tutti un rumore: non lo riconoscemmo subito come l’esplosione di un ordigno. Fu un evento fuori dal normale, un rumore che non aveva nulla a che fare con quanto vediamo o sentiamo in un film, anche perché un film, lo sappiamo, è finzione. La realtà fu purtroppo diversa e, come me, tanta altra gente che era per strada si bloccò, non ci rendevamo conto di quello che avevamo sentito. Non riuscendo a darci una spiegazione, ci siamo tutti fermati guardandoci, interrogandoci un po’ con gli occhi: poi nel giro di qualche minuto, dal momento che nessuno era in grado di capire quello che stava succedendo, ognuno riprese a fare quello che stava facendo.

Passo dopo passo, però, comincia ad apparire una scena apocalittica…

Devo dire che ho continuato con tranquillità a camminare per arrivare in stazione. Mi sono reso conto che c’era qualcosa che non andava solo quando sono arrivato al centro di quel ponte da cui si domina tutta l’area della stazione di Bologna. Solo da lì ho cominciato a vedere le immagini, la distruzione di quell’ala così importante che ospitava le sale d’aspetto, il bar, il ristorante, gli uffici…

Agide Melloni

Dal ponte vidi una montagna di macerie. Poi, osservando meglio, notai tutto il resto, il comportamento delle persone lungo i binari. C’erano tanti binari e, accanto a ognuno di esso, la gente impaurita, persone ferite che scappavano ovunque. La cosa strana è che scappavano, ma poi ritornavano sui loro passi. Mi chiedevo come mai tornassero vicino al punto in cui c’era il maggiore pericolo. Mi pareva una follia generalizzata. Ma quel comportamento servì a far sì che feriti a ridosso della montagna di macerie ricevessero assistenza, aiuto, conforto dai primissimi che giunsero per prestare soccorso.

Quanto ci misero ad arrivare i soccorsi?

Pochissimo, nel giro di cinque minuti stavano già operando. Fu qualcosa di indimenticabile perché, quando mi misi a correre per arrivare in stazione, mi ritrovai a contatto con la gente coinvolta nell’esplosione che urlava, era ferita, sanguinava, era terrorizzata, si comportava in modi assolutamente irrazionali. Scappavano, tornavano, cercavano le persone che non trovavano più, erano disperate. I soccorsi arrivarono da ogni dove. Persone che erano in stazione per partire o erano appena rientrate si ritrovarono a dare aiuto insieme a vigili del fuoco, medici, infermieri, ai ragazzi di leva che uscirono dalle caserme e corsero in stazione. Diventava importante aiutare anche chi chiedeva notizie, chi non sapeva dove erano finiti i propri cari. Una disperazione che coinvolse tutti.

Qualunque tipo di aiuto a quel punto era come l’acqua nel deserto.

Anche le cose più semplici diventarono essenziali. Come un ragazzo che toglieva la rotella di una bicicletta, gesto che sembra superfluo ma che diventava un mezzo di soccorso che anticipava l’arrivo dell’ambulanza. Sono state tante e diverse le risposte, ma tutte segnate da questo non voltarsi indietro, dal non girarsi dall’altra parte. Infermieri che dicevano ai medici cosa fare, è strano ma avvenne anche quello. Ricordo un’anziana signora che si presentò ai vigili con una ciotola piccolissima tra le mani. Aveva messo dentro un batuffolo di cotone imbevuto di disinfettante. Si avvicinò ai medici e disse: “Io ho solo questo, ma è la mia gente”. Chiunque si dava da fare, personale preparato, ma anche gente comune che, ogni volta che estraeva le mani da quella montagna di macerie, le aveva coperte di sangue.

Quale ruolo ebbero gli autobus, a quel punto?

La gente che uscita indenne, seppur ferita, scappando fuori, trovò gli autobus fermi ma li vide come un luogo dentro il quale trovare riparo. C’era la grande paura che potesse esserci un altro esplosione. Salirono e li riempirono in pochissimo tempo. I miei colleghi non aspettarono nessun ordine, andarono via per portare le persone negli ospedali e, in quel modo strano, non previsto, non programmato, si salvarono molte vite. Non lo dico io, ma lo dissero gli stessi medici.

Ma i corpi andavano aumentando…

Erano sempre di più i corpi senza vita che venivano estratti e adagiati in terra, coperti con delle lenzuola, in attesa che potessero essere portati via. È bastato uno sguardo e abbiamo capito che la cosa migliore da fare in quel momento era far sì che tutte le ambulanze a disposizione venissero lasciate esclusivamente a disposizione dei feriti. Era l’unico modo per provare a salvare delle vite. Ma i corpi che avevamo accanto a noi, non sarebbe né stato giusto lasciarli a terra, né potevamo assolutamente ignorarli. Creammo le condizioni per portarli all’interno dell’autobus che avrei dovuto guidare, il 37, e adagiammo le barelle sul pavimento, una accanto all’altra, senza accatastarle come forse si sarebbe fatto in situazioni di altrettanta emergenza. Da quel momento e fino a notte fonda guidai instancabilmente dalla stazione all’obitorio. Come un viaggio all’inferno. Ovviamente su quell’autobus c’era sempre un medico, un infermiere, un vigile del fuoco, anche un poliziotto. Era anche un modo per darci forza a vicenda, condividendo quei tragici momenti. Lo stesso tragitto fatto tante volte. L’ultimo corpo venne estratto dalle macerie, tra le 2 e le 2.30 di quella domenica mattina, era quello della mamma di Paolo Lambertini, colui che tra pochi giorni sarà il nuovo presidente dell’Associazione tra i familiari vittime della strage di Bologna, in un passaggio di testimone con Paolo Bolognesi.

Quella nuova alba cosa ha rappresentato per lei?

Rientrai in deposito alle 3.30 e lì cominciò una nuova vita per me. Da quel momento, per oltre vent’anni, non ho mai parlato di quello che ho vissuto perché tutto quello che ho visto, che ho sentito, a cui ho partecipato mi sembrava talmente grande, talmente fuori dal mondo, talmente ingiusto, che ho pensato molte volte che, raccontandolo, forse qualcuno avrebbe potuto dirmi che stavo esagerando. Per tanto tempo, quindi, ho preferito tenerlo per me, fino al momento in cui mi hanno fatto capire che il silenzio non va bene, soprattutto perché i giovani hanno il diritto di conoscere quella storia e noi abbiamo il dovere di raccontargliela. Quando faccio la mia testimonianza, per esempio, racconto sempre la storia di due fratelli siciliani, Giuseppe e Salvatore Seminara: si erano dati appuntamento in stazione, dove Salvatore attendeva nella sala d’aspetto il fratello che stava arrivando con un treno che era in ritardo. Rividi Giuseppe seduto sino a notte fonda, appoggiato a un albero con la testa tra le mani. Solo pochi mesi fa, grazie a una docente di storia, siamo riusciti a trovare un vecchio ritaglio di giornale che raccontava la loro storia.

Com’è cambiata Bologna dopo la strage?

Dico solo una cosa: molto spesso i bolognesi, se si chiede loro quando vanno in vacanza, rispondono il 3 agosto. Quello che è accaduto ha lasciato un’impronta talmente profonda che, anche coloro che quel giorno non c’erano, hanno fatto propria quella tragedia, dalla quale è anche giunta una risposta collettiva. Il 2 agosto è ormai nel dna di questa città, una Bologna che ha comunque continuato a lottare per ottenere verità e giustizia.

Che vita ha avuto l’autobus n. 37?

Alla fine degli anni ’90 venne sospeso il servizio e l’autobus venne messo in quello che teoricamente era il “Museo dei trasporti” di Bologna. Non fece però una bella fine perchè l’ambiente non lo proteggeva da tanti punti di vista. Fortunatamente, nel 2017, la cittadinanza cominciò a fare pressione sull’amministrazione comunale perché le persone volevano sapere che fine avesse fatto. Fu, così, recuperato. Oggi esce una sola volta all’anno con il suo motore e sulle sue ruote, per accompagnare il corteo che il 2 agosto va alla stazione. Poi rientra in deposito, dove viene conservato gelosamente. Non è un semplice autobus, non lo per me ma neanche per la città e per i giovani. I ragazzi dell’Accademia delle Belle Arti, infatti, hanno realizzato un progetto e mi hanno anche chiesto cosa è stato e cos’è oggi per me l’autobus 37: non ho problemi a dire che per me è stato un caro amico, che quel giorno mi ha dato l’occasione di fare la mia parte. Nella tragedia e nel dolore, mi ha consentito di dare dignità alla morte. Non ci sono altre parole per potere raccontare diversamente quanto accaduto.

In apertura, la manifestazione commemorativa per il 44esimo anniversario della strage alla Stazione Centrale di Bologna (2 Agosto 2024): foto di Alessandro Ruggeri/LaPresse

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