Il suo passato recente è in buona parte uguale a quello di migliaia di altri giovani: un percorso di studi che lo ha appena condotto alla laurea triennale in Lingue e letterature e proseguirà con la magistrale in Relazioni internazionali. Il suo futuro è tutto da scrivere. Ma intanto c’è un presente che va oltre i libri universitari, gli esami e alcuni lavori saltuari che gli consentono di avere una propria indipendenza: Alessio Taglialatela ha 22 anni ed è un caregiver, parola che identifica colui che fornisce cura e assistenza a una persona malata, con disabilità o anziana, solitamente un familiare, un parente o un amico, in modo continuativo e non retribuito.
Alessio da un paio d’anni alterna lo studio e il lavoro al supporto che dedica al padre, che compirà 63 anni il prossimo 4 agosto: gli è stata diagnosticata una demenza frontotemporale – Ftd (nella foto d’apertura Alessio abbraccia il genitore).
«Tutto è cominciato due-tre anni fa, quando mio padre ha iniziato a manifestare alcuni sintomi un po’ particolari, come la perdita di memoria nel breve e nel lungo periodo», racconta Alessio. «Io e mia sorella Serena, inizialmente, abbiamo avuto qualche perplessità ma non ci abbiamo dato troppo peso. Ma una volta, nel cuore della notte, mio padre si svegliò e venne a cercarmi: mi chiese dove e con chi si trovasse. Era visibilmente scosso. Riuscii a tranquillizzarlo e a farlo addormentare di nuovo. Ma dall’indomani ci mettemmo subito in moto per parlare con degli specialisti e iniziare una lunga trafila di accertamenti clinici. Siamo passati dall’ospedale Gemelli, da Tor Vergata – dove ora è in cura – ma non abbiamo trascurato i consulti privati. Questa demenza si manifesta in età non avanzata, e questa caratteristica la differenzia dalle altre malattie di questa tipologia».

Avete pensato di rivolgervi a una delle grandi realtà del Terzo settore che si occupano del supporto ai malati e ai familiari di queste patologie?
In verità, all’inizio ci siamo mossi con molta cautela: un po’ per non spaventare mio padre, un po’ perché confidavamo in una sua parziale ripresa. Soprattutto per me è stato difficile accettare il fatto che lui stesse perdendo parte della sua personalità. Poi siamo stati travolti dalle tante cose da fare, tra visite mediche e le cure a casa. C’è stato un periodo in cui ho smesso di vedere la persona per privilegiare il malato. Alla fine, mi sono detto che dovevo semplicemente comportarmi da figlio che vuole bene al proprio papà. Lo stesso fa mia sorella. Da quando i nostri genitori sono separati, il peso maggiore di questo percorso grava su di noi. Ma Serena ha tre figli piccoli, dunque io cerco di dedicare il mio tempo libero a mio padre e alla mia nonna paterna che, quasi novantenne, ha deciso di trasferirsi da Napoli per raggiungere il proprio figlio. Ma ovviamente non può fare tutto da sola, anche lei ha bisogno di assistenza.
Considerando la tua giovane età, non è affatto facile portare un “fardello” del genere sulle spalle.
A volte ci siamo sentiti soli. Mio padre si trova in uno stadio della malattia relativamente iniziale. E, per tornare alla sua domanda precedente, mi avevano segnalato l’Associazione italiana malattia frontotemporale – Aimft, ma noi abitiamo distanti dalla loro sede, dunque abbiamo preferito organizzarci per conto nostro. Ho cercato piano piano di recuperare l’ottimismo che avevo perso inizialmente. Ho la grande fortuna di avere al mio fianco mia mamma, sempre presente nonostante la separazione. E poi anche Serena: i suoi tre bambini sono una gioia per mio padre. Nel mio piccolo, so che nella mia vita ho ricevuto delle cure, e ora cerco di restituirle. Mi sento nel profondo in questa condizione di figlio. Quello che faccio non è un dovere o una responsabilità che avverto come un peso: è faticoso, certamente, ma è giusto farlo. Mio padre si è preso cura di me, io ora mi prendo cura di lui.
La Ftd non colpisce solo la memoria.
No, cambia la personalità, il linguaggio e il comportamento. Mio padre è ancora con noi, ma in una forma differente, a volte difficile da riconoscere. È piuttosto presente a se stesso e consapevole della malattia, che non è facile da accettare. A Tor Vergata ha fatto un percorso multisensoriale con una psicoterapeuta, ricevendo parecchi stimoli. Una terapia farmacologica attenua e in parte rallenta alcuni sintomi. Noi cerchiamo di stimolarlo sia mentalmente che fisicamente, accompagnandolo dai nipotini o al mare, dove lui sta molto bene. Quando gli fu diagnosticata la patologia, con lui e la mia famiglia facemmo un viaggio a Capo Nord, un sogno che aveva da tempo. E spesso gli mostro le foto di quella bella esperienza, per stimolargli la memoria. In buona parte, i ricordi gli ritornano alla mente, ma non voglio rattristarlo: cerco di fargli vivere un buon presente piuttosto che fargli rivivere il passato.
Fai tutto ciò che è nelle tue possibilità, in fondo.
In questo percorso difficile ho capito una cosa: non sono solo, non siamo soli, però siamo invisibili fino a quando nessuno ne parla pubblicamente. Ecco perché credo che sia necessario dare più mezzi possibili alle persone che si prendono cura dei loro cari. Io e Serena ci siamo sentiti spesso senza difese, senza mezzi adeguati. La sensazione è quella di sbagliare qualunque cosa si faccia. Nella testa c’è sempre una vocina che ti dice che non stai facendo la scelta giusta. Ogni volta mi viene il dubbio: gli sto facendo del bene oppure sto peggiorando la situazione? Non sai mai dove finisce la persona e dove inizia la malattia. Razionalmente, possiamo anche fare una serie di ragionamenti, ma processare questa situazione non è facile. Perché affiorano sempre alla mente i ricordi di com’era mio padre: lui è sempre stato presente nella mia vita, è una persona erudita, leggeva molto e mi spronava in tutto.

È la fatica quotidiana che ti spinge a fondare l’associazione CareYouth Eu?
In parte sì. Credo che non ci siano abbastanza risorse per situazioni del genere, a causa di tutta una serie di combinazioni. Barcamenarsi nel mondo e affrontare una serie di sfide, tra studio e lavoro, non facilita poi l’assistenza a un familiare malato. Ecco, con CareYouth Eu vorrei fare sensibilizzazione a riguardo. Non solo in Italia ma in tutta l’Europa ci sono migliaia di giovani come me che si prendono cura, ogni giorno, di genitori o familiari malati. Non hanno tutele e neppure supporto. Non penso soltanto alla mia esperienza personale, sarebbe importante ascoltare le storie di altri giovani. Avverto la forte esigenza del confronto. Vorrei non far sentire gli altri soli come lo siamo stati io e mia sorella.
Nel tuo appello su LinkedIn, dici di voler fondare questa rete europea «per dare voce, strumenti e diritti ai giovani caregiver». Che cosa intendi?
Manca soprattutto un supporto psicologico attraverso le strutture sanitarie territoriali. Mettere a contatto le persone che affrontano lo stesso tipo di esperienza: ecco il significato di una rete. Quando parlo di advocacy, mi riferisco soprattutto alla possibilità di dare voce a questa moltitudine di persone. Per esempio nel Consiglio nazionale dei giovani non c’è una rappresentanza di coloro che svolgono il lavoro di caregiver, che è un’attività che occupa gran parte della giornata di chi ne è coinvolto. Anche negli atenei spesso manca questo supporto. Io sto per iniziare il percorso biennale alla Lumsa di Roma, dove sono previsti gli strumenti di supporto per i caregiver, ma ci sono università persino più grandi in cui ciò non è previsto. Alla Sapienza, per esempio, non ho avuto modo di incontrare realtà che mi tendessero una mano in tal senso.
Nel tuo giro di amicizie e conoscenze ci sono altre persone che stanno affrontando questo genere di esperienza?
No. Conosco soltanto una mia cugina di secondo grado, il cui padre era malato di Alzheimer. Ma abbiamo una grande differenza di età, non ho molte occasioni per confrontarmi con lei. La solitudine nasce anche e soprattutto da questo: sono sicuro che ci sono persone che vivono queste problematiche e magari stanno a poche centinaia di metri da casa mia. Ho un amico di Malta che ha vissuto questo tipo di esperienza familiare e, saputo della mia iniziativa, mi ha detto che la sosterrà.
Come si può dare un contributo alla causa?
Ho aperto una campagna su GoFundMe per finanziare la nascita dell’associazione. I fondi che raccoglierò serviranno a registrare legalmente l’organizzazione, costruire una piattaforma online multilingue, attivare gruppi di supporto e iniziare il lavoro di advocacy.
In Italia sono 391mila gli adolescenti e i giovani tra i 15 e i 24 anni che devono occuparsi di un familiare: il 6,6% dei ragazzi di quell’età. Secondo l’Istat sono raddoppiati in solo cinque anni, fra il 2015 e il 2020. Euro Carers stima che l’8% di tutti bambini e gli adolescenti europei prestino cure, assistenza o sostegno a un familiare o un amico con una malattia cronica, una disabilità, una fragilità o una dipendenza, assumendosi livelli di responsabilità che di solito si associano a un adulto. La cooperativa sociale Anziani e non solo di Carpi si occupa di giovani caregivers dal 2012. A Milano è nato da poco Young Care Italia, le cui promotrici sono proprio ex giovani caregiver. Da tempo invece il Children of mentally ill parents-Comip offre supporto e fa sensibilizzazione. Se sei un giovane caregiver e hai bisogno di aiuto, contatta una di queste realtà.
Il numero di aprile di VITA magazine, titolato La solitudine dei caregiver parla anche di giovani caregiver: se hai un abbonamento puoi scaricare subito qui la versione digitale, oppure abbonati per scoprire il magazine e tutti gli altri contenuti dedicati.
Credits: foto di Alessio Taglialatela
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