Cultura

Ballarò, il buon pesce e la malacarne

Qui Sicilia. Nel cuore della Palermo vecchia un mercato fatto di sapori e odori “belli e brutti”. Un suk italiano dove predomina una forte cromaticità. Di Silvia Ferraris

di Redazione

Tra Campania e Sicilia passando per la Calabria il nostro viaggio approda in quattro angoli emblematici del Sud. La domanda di fondo è sempre la stessa: come è possibile convogliare tanta energia vitale sui binari di un?accettabile modernità? Quanto del patrimonio del passato può trasformarsi in risorsa? Si scopre che la Calabria raccontata da Nuccio Iovene è un paradiso inespresso dal punto di vista turistico, con la sua capacità di coniugare montagna vera e mare altrettanto vero. Un?accoppiata che non ha paragoni in nessun angolo del mondo. Anche Palermo sta accelerando nei cambiamenti, mantenendosi ben fedele alla sua immagine di città dai sapori violenti: il grande successo del mercato di Ballarò (che ha un po? soppiantato la vecchia e gloriosa Vucciria) ne è testimone. Ma il Sud è anche territorio di grandi flussi umani. Come dimostra l?ultra nota storia di Mazara del Vallo. E come dimostra, a sorpresa, anche il caso di San Vito Lo Capo, località trapanese per la quale la modernità ha assunto una connotazione culinaria: è diventata la capitale del cous cous. Grazie alla nuova migrazione che ha fatto tornare a galla le antiche ascendenze arabe della Sicilia occidentale.

«Che bellu u? pisci!». Che bello il pesce!, gridavano i venditori. Ma perché ?bello?, e non buono? Perché ?buono? a Palermo si dice ?bello?. E molte altre stranezze: per esempio «Esci la macchina dal garage». «Scendi la merce dal furgone». Ma al mercato di Ballarò non serve spiegare i verbi transitivi e intransitivi. Le sarde sono belle e basta e chi se ne frega della grammatica.

Ballarò è ormai per tutti la sigla di una nota trasmissione tv e ogni volta che sul piccolo schermo compare quel nome, i miei occhi rivedono il vicoletto che si tuffa in una piazzetta improvvisamente buia e umida, odori belli e brutti, di cibo e di muffa di case cadenti. La Ballarò che conosco, sepolta laggiù a Palermo, nel cuore del centro storico, è un mercato coloratissimo e allegro, come tutti i vecchi mercati arabi. Un suk italiano di pesce fresco e spacciatori di fumo, di neri e bianchi, di bambini che scippano, una Ballarò di dieci anni fa, quando lasciai Palermo per Milano. A Milano i mercatini non sono la stessa cosa, non hanno lo stesso odore né la stessa umidità, non lo so spiegare. E l?amore, si sa, è una cosa chimica.

Lo sapeva il pittore Renato Guttuso, che ha immortalato la Vucciria, sorella gemella decaduta di Ballarò, in un bellissimo quadro del 1974, olio su tela dove il colore sembra schizzare via da un momento all?altro. Tutto appare come pronto per il decollo anche sulle bancarelle di Ballarò. Pesci spada col naso all?aria, piramidi di pomodori, lumache con le corna ?tese tese? costrette ad aspettare il loro turno in grandi ceste di vimini intrecciate a mano, e il sale sparso sull?imboccatura, perché le lumache hanno paura del sale, e così non ne scappa nemmeno una. E a luglio, quando arriva Santa Rosalia, per quelle piccole cornute non c?è scampo: sono la delizia che finisce per prima in tavola, a festeggiare, con la caponata di melanzane, le sarde a beccafico, la frutta secca, agnelli, pollo e origano a cascata.

Non che stravedessi per tutto quel ben di Dio, non era quello che mi piaceva di Ballarò, non le foreste di basilico né l?odore dello sfincionello, versione locale della pizza, caciocavallo e cipolla, bordi alti e soffici. Il sogno di ogni palermitano è dormire tra due guanciali di sfincione appena sfornato, o sedere davanti a una montagna di ricci di mare spaccati a metà e conditi con succo di limone.

No. Il mio interesse era semmai di tipo estetico-antropologico. Ero affascinata dalla convivenza di quei mondi, così vicini e così lontani, la malacarne degli scippatori che sgommavano sulle motorette, pronti a farti nuda, e la bellezza, i profumi, direi quasi l?innocenza del luogo. Andavo a passeggio sulle pietre lisce lisce della strada, le ?balate? sempre sciacquate dai pescivendoli, e pensavo: «Ora mentre contemplo queste ghirlande d?aglio, arriva un malacarne e mi fa a pezzi per portarmi via la borsa», e intanto i venditori ambulanti si strizzavano l?occhio tra di loro: «Talìa chi bellu stu? pisci!», guarda che bel pesce e la mia paranoia cresceva. Ecco, pensavo, il pesce sono io, è tutto un complotto per scipparmi la Nikon.

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