Mondo

I confini labili dell’assenza di lucro

Il significato autentico del termine

di Redazione

Vi sono espressioni che, se ripetute, diventano nenie che col tempo tendono a perdere di significato. “Senza scopo di lucro” (o equivalente) è una terminologia molto in voga, sottintendendo malignamente che siano tanti gli enti che in realtà di scopo di lucro ne avrebbero in abbondanza. In consulenza, spesso mi viene riferito un parere del tipo: «La mia associazione è veramente non profit, non come le altre?». Capite bene che di fronte a certe banalità, ad accuse generiche e non circostanziate, cadono, anzi franano le braccia.A noi invece non interessa inseguire le voci, le maldicenze, il cattivo senso della gente, ma capire il vero senso delle cose. Occorre dunque sottolineare che l’assenza di scopo di lucro ha una doppia accezione.
Lucro soggettivo.Ciò che caratterizza la partecipazione del singolo è l’interesse alla causa ideale e il disinteresse economico. In alcuni casi viene ammesso anche un interesse economico (ad esempio il fatto di avere tra i propri dipendenti o collaboratori alcuni associati) che ovviamente non deve portare all’estremo opposto. Una associazione di promozione sociale può, per legge, remunerare un proprio socio o anche più di uno, ritenendo che il lavoro di quest’ultimo possa essere utile al perseguimento dei fini dell’ente.Se la stessa associazione utilizza prevalentemente forza lavoro remunerata, salta agli occhi che qualcosa non va, in quanto lo sforzo per perseguire il fine dell’ente non è realizzato con il volontariato e che così facendo “salta” la causa ideale dell’ente e viene sostituita da quella economicamente egoista dei soci che vi lavorano. È il caso messo in luce dall’Agenzia delle Entrate con una risoluzione (9/07) su una sportiva dilettantistica. Giova qui ricordare che ciò che è permesso – limitatamente – all’associazionismo e alle onlus, non è consentito invece alle organizzazioni di volontariato.
Lucro oggettivo. L’ente non profit, pur dovendo mirare ad una gestione in economia, foss’anche solo per sopravvivere, non deve avere quale fine il profitto inteso “ad ogni costo”, non deve avere modalità di gestione oggettivamente volte a massimizzare i ricavi. Qui i confini sono più sfumati e più complessi anche da spiegare. Mettiamola così: i modi di comportarsi di un ente non profit devono rimanere ben differenti dalle azioni messe in pratica da chi ha invece finalità for profit; se tra i due soggetti non si vedono le differenze di comportamento, allora siamo in una zona grigia che non fa onore alla non profit. Peraltro qui il concetto di assenza di lucro incrocia, senza sovrapporsi né confondersi, due nozioni distinte che è bene richiamare. La prima è quella di attività commerciale. Può anche realizzare attività commerciali ma queste non possono essere prevalenti. La prevalenza – di risorse impiegate, di entrate ottenute – deve rimanere nell’ambito delle contribuzioni libere, delle donazioni, dei corrispettivi decommercializzati da soci. La seconda nozione è quella di conflitto di interessi, che vi assicuro non essere né una chimera, né una parolaccia. Se la mia associazione mi paga per realizzare una delle sue attività, sarà bene che il mio voto in consiglio direttivo non sia determinante nella presa di decisioni che influenzeranno in futuro il mio (seppur legittimo) ritorno economico. Il consiglio è che chi ha un ritorno economico da un’attività dell’ente non sieda nell’organo decisionale di amministrazione dell’ente che – su quella attività – deve essere libero nel prendere decisioni svincolate da aspettative economiche e mirate solo al perseguimento del fine ideale dell’ente. Mi rendo ben conto che il discorso è complesso, e con ciò ritorno alle facili ed inutili ironie su un non profit che non è non profit, solo perché c’è gente che “ci guadagna”. Se – come credo – siamo tutte persone vaccinate, e se abbiamo voglia di alzarci dall'”alzo zero” che contraddistingue i nostri confronti sociali, non dovrebbe essere difficile introdurre questi concetti base. Giusto per evolvere.

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