Emilio di Bergolo, uno chef che vive in un bellissimo paesino dell’Alta Langa, sopra a Cortemilia, m’ha detto che i ristoranti sono vuoti soprattutto la quarta settimana. Ma se il prezzo è giusto, diventano meno vuoti. Nella campagna mantovana ho visto ancora le trattorie che insegnano a gustare alcuni piatti nati dal genio contadino del recupero degli avanzi. Uno di questi sono i capunsei, gloria dei paesi dell’Alto Mantovano, in particolare di Volta Mantovana che ha addirittura creato un sito (www.capunsei.it) dedicato a questo piatto fatto di pane raffermo grattugiato, uova, brodo e Grana Padano, arricchito poi di spezie varie. Io l’ho assaggiato alla trattoria La Pesa di Castellaro Lagusello, frazione romantica cinta dalle mura e, con un’onesta anatra ripiena e il caffè, la spesa è stata sotto i 20 euro. I capunsei sono un piatto a denominazione comunale, giustamente, perché certe ricchezze vanno fissate nella storia per essere trasmesse alle generazioni future. Nella genialità di un piatto ci sono tutti i valori contadini, soprattutto quelli del non spreco perché ogni cosa che è raccolto della natura è un dono. Da poco tempo è on line il sito www.denominazionicomunali.it che racconta tante storie in Italia legate al valore identitario di un piatto o di un prodotto. E se il Carducci sosteneva che non si sarebbe compiuta l’Unità d’Italia finché ogni paese non avesse scritto la sua storia, io dico che si può comporre il puzzle partendo proprio da un sapere semplice come un piatto. E qui mi vengono in mente il Turtun di Castel Vittorio, sulle montagne dell’Imperiese, gli agnolotti monferrini, la Torta Amara della Vallera, ma anche il panettone di Milano e la piccola pasticceria alessandrina. Asti s’è fregiata delle De.Co. dell’agnolotto gobbo, mentre Castel d’Ario lo ha fatto con il riso alla pilota. Ogni piatto è una storia, come quella drammatica di Dolceacqua, dove la michetta dolce è diventata il simbolo di ribellione al signorotto del paese che pretendeva lo ius primae noctis.
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