Solo nel 2010 ha visto coinvolti 1,6 milioni di italiani, impegnati in una raccolta che va in scena in 40 province e 600 comuni del nostro Paese. È il mercato degli abiti usati che gestisce Humana People to People Italia – HPP. Per capire di cosa si tratta basta andare a Pogliano Milanese, in una delle tre sedi HPP italiane (le altri due sono a Torbole Casaglia, in provincia di Brescia, e a Rovigo). Il piccolo paese alle porte di Milano è riconoscibile per le interminabili file di capannoni industriali e in uno di questi ha sede Humana. Un grande ambiente suddiviso in altezza: al “piano superiore” gli uffici, in basso il magazzino. E anche Humana è suddivisa in due realtà: l’associazione Humana People to People Italia onlus e la cooperativa sociale (Humana People to People Italia Scarl). «La cooperativa realizza la raccolta abiti in favore della onlus, che impiega questa risorsa per realizzare progetti sociali in giro per il mondo», puntualizza Ulla Carina Bolin, la presidente.
Il meccanismo
Come funziona il sistema? «Vede quei camion in manovra? Sono i mezzi che fanno la spola con i nostri 3.326 contenitori, posizionati un po’ in tutta Italia», spiega la Bolin riferendosi ai contenitori metallici gialli familiari a chi risiede in Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Marche, Abruzzo, Puglia o Basilicata. I mezzi scaricano quintali di vestiti che devono essere trattati, ed è proprio lì, in un grande spazio a piano terra, che vengono controllati, sterilizzati e selezionati in categorie precise. Gli operai, alcuni stranieri, ma tutti regolarmente assunti con contratto a tempo indeterminato e con una paga che si aggira sui 1200 euro al mese, si alternano su sei postazioni. In totale in Italia con Humana lavorano 60 persone, la maggior parte delle quali si occupa del lavoro materiale di selezione della merce per materiale, qualità e stato. Una grande fatica. Ma perché farla? «Con questo lavoro vengono creati innumerevoli sottoinsiemi», spiega la presidente, «un lavoro certosino e indispensabile: è infatti l’unico modo per portare alla luce le due fonti di sostentamento principali della nostra realtà». Ovvero il vestiario da spedire in Africa e la cosiddetta “prima scelta”, vestiti di marca e ancora in buono stato che vengono messi in vendita in Italia. Seguendo il percorso dei vestiti che approdano sulle coste africane si scopre il resto della filiera. Se la “prima scelta” viene infatti venduta sul mercato domestico (e con questi ricavi vengono coperte le spese e pagati gli stipendi), gli indumenti inviati in Africa alimentano un altro mercato. A piazzarli sui mercati locali ci pensano le cosiddette “associazioni consorelle”, realtà create da Humana proprio a questo scopo. «È un modo per alimentare e dar vita ad una economia locale altrimenti inesistente», sottolinea la presidente. Nel 2010 sono stati spediti 1.242.912 chili di vestiti estivi: 854.571 chili sono sbarcati in Mozambico e 388.341 chili sono approdati in Malawi. Il ricavato della loro vendita, assieme ai fondi frutto di donazioni da parte di privati, aziende e istituzioni (nel 2010 pari a 872.784 euro), è stato utilizzato per la gestione di due scuole magistrali, tre scuole professionali, una scuola per bambini svantaggiati, alcuni interventi agricoli e di sicurezza alimentare e in campagne di sensibilizzazione sull’Aids e di aiuto all’infanzia.
Costola africana
Humana in Africa è presente, oltre che in Mozambico e Malawi, anche in Guinea Bissau, Angola, Zambia, Zimbabwe, Sud Africa, Namibia, Botswana e Repubblica democratica del Congo. In ognuno di questi Paesi sono state create delle “associazioni consorelle” che le referenti esclusive dell’associazione. «C’è chi sostiene che inviare abiti usati in Africa danneggi i produttori del posto», spiega Bolin, «ma la quasi inesistente produzione locale non è in grado di soddisfare la domanda; gli abiti che inviamo sono quindi necessari a coprire il fabbisogno della popolazione. Gli unici a cui facciamo concorrenza sono i cinesi che, oltre a quello europeo e americano, hanno invaso anche questo mercato». «La nostra realtà», continua la presidente, «fa parte di un sistema più ampio. La scelta di spedire in un Paese piuttosto che in un altro è concordata con la nostra federazione internazionale». Grazie a questo coordinamento viene stabilito annualmente in quale località del Sud del mondo le associazioni HPP europee e nord americane debbano spedire gli abiti. Una rete internazionale perché la storia di Humana comincia in Svezia e Danimarca negli anni 60, durante il boom economico.
«Se mi si chiede di fare un bilancio del nostro operato posso dire che, grazie alle nostre attività, 14mila bambini sono stati inseriti in 400 prescuola, 2.700 studenti (11mila dal 1993) ogni anno si diplomano nelle 24 scuole magistrali gestite da Humana in India, Malawi, Mozambico ed Angola e 11 scuole professionali sono attive in Africa», aggiunge fiera Bolin. Ma c’è dell’altro. Non si può infatti non menzionare l’attenzione per l’ambiente. Per ogni chilo di abiti recuperati si riduce di 3,6 chili la produzione di CO2, di 0,3 chili quella di fertilizzanti e di 0,2 chili quella di pesticidi, oltre ad abbattere di 6mila litri il consumo d’acqua. «Facendo una media annua del lavoro di Humana in Italia, si tratta di 46mila tonnellate di anidride carbonica in meno nell’ambiente e di circa 77 milioni di litri d’acqua risparmiati» sottolinea Bolin. Solo nel 2010, le emissioni di CO2 risparmiate nel nostro Paese sono pari a circa 52.690 tonnellate. Proprio su questo si fonda un solido rapporto coi Comuni. Le amministrazioni locali non prevedono servizi simili, che rientrebbero nella raccolta differenziata. «Senza di noi i cittadini dovrebbero pagare tasse ad hoc molto salate solo per mandare i propri vestiti agli inceneritori», conclude Bolin.
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