Come si fanno a vendere otto chili di mele ogni anno a 30 milioni di italiani? La sfida di Melinda si è condensata in questi numeri che a pensarli sembrano davvero pazzeschi. Ma sono numeri che Luca Granata, snocciola senza ansia e dando l’impressione di avere bene sotto controllo tutto il processo. Granata è da dieci anni il direttore di questo grande consorzio che raccoglie tutti i coltivatori di mele della Val di Non: che vuol dire 4mila famiglie, raccolte in un territorio magico di 635 chilometri quadrati. Ogni anno questo fazzoletto di terra produce la bellezza di 300mila tonnellate di mele, vale a dire 1,5 miliardi di frutti. Granata è uno che con i numeri si diverte anche a giocare, e ha calcolato che se mettesse in fila tutte le mele prodotte in un anno dalla Val di Non ne verrebbe fuori una collana di 112mila chilometri.
Ma la storia di Melinda è interessante soprattutto per un altro motivo: perché è un modello cooperativo che ha saputo aggiornarsi velocemente e adeguarsi alla grande alla sfida della modernità. In Val di Non tutti coltivano mele. Sia chi ha un ettaro di terra sia chi ne ha dieci o cento volte tanto. La ragione è semplice: non c’è altra zona del pianeta che sia più adatta a produrre mele di qualità. I motivi Granata li sintetizza velocemente: orientamento della valle nord ? sud (il sole bacia le mele nelle sue ore più calde); posizione perfetta a 45 gradi di latitudine; composizione del suolo; sbalzi termici bassi; altezza media migliore possibile.
La mela è qui da sempre. Buonissima, ma sino al secolo scorso un po’ sprecata. Le famiglie erano organizzate in 16 cooperative. Che facevano raccolta e poi venivano prese d’assalto dai camion della grande distribuzione con continui giochi al ribasso. Sino a che con l’arrivo di Granata (era dirigente di una multinazionale, la Dupont) si è proceduto a una riorganizzazione radicale. Le 16 cooperative sono diventate dei semplici punti di raccolta, mentre tutto il meccanismo più delicato è stato concentrato in sei grandi centri di lavorazione. Il percorso è da raccontare, perché nella sua sofisticazione tecnologica spiega bene i passi da gigante che sono stati fatti in questo distretto delle mele.
I frutti raccolti vengono portati nei 16 centri; qui celle frigorifere le accompagnano con un lento processo a 1,5 gradi al nocciolo: perché gli italiani mangiano mele tutto l’anno e quindi la questione della buona conservazione diventa un’arma fondamentale per vincere le sfide del mercato. E sulla conservazione Melinda ha messo a punto un know how che tutti guardano con invidia: la chiamano “conservazione al buio e al loro (loro delle mele) respiro”
Quando è l’ora di scendere nell’arena della distribuzione la mela viene tolta dalla cella e portata ai centri di raccolta. Qui ogni frutto viene schedato passando per una selezionatrice che lo fotografa ben 72 volte per classificarlo a dovere secondo 48 tipologie diverse, per venire così incontro con precisione alle esigenze di ogni cliente in 27 Paesi del mondo.
Ma la modernizzazione del processo produttivo andava accompagnata anche da una modernizzazione della comunicazione. Che, per ammissione dello stesso Granata, all’inizio è partita un po’ a casaccio.
La storia del nome merita di esser raccontata: perché venne in mente a un gruppo di coltivatori della Val di Non in missione da loro colleghi in Argentina. Qui conoscendo poco lo spagnolo, si limitavano ad apprezzamenti verso le belle donne, con un complimentoso “muy linda”. Quel tormentone piacque al punto che si scoprì che poteva esser adattato a tutt’altri scopi. Così nacque Melinda, che voleva essere oltre che un marchio un’identificazione geografica: la Val di Non come “favolosa terre delle mele”. Poi il gioco si fece serio. Il logo fu affidato ad un’agenzia londinese, le prime campagne pubblicitarie, tutte con destinazione grandi media e possibilmente in prime time sono invece frutto della fantasia di Armando Testa e della sua squadra.
Oggi l’agenzia che ha in portafoglio Melinda è quella di Aldo Cernuto e Roberto Pizzigoni.
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