Non profit
Il non profit che “mi piace”
Tanti amici e followers, poca interazione. Ecco il lato sociale dei social network
di Redazione

Amici, fan, followers. Si chiamano social network, ma quanto quel “social” ha a che fare col mondo del sociale? Come se la cava, insomma, il non profit italiano sul fronte del networking online? Partiamo dalle basi. Praticamente tutte le associazioni hanno una propria pagina su Facebook, di cui si può diventare fan. A voler fare una classifica, la più apprezzata in assoluto è quella di Emergency, che conta oltre mezzo milione di likers, segue l’Airc a 250mila e terza si piazza Medici senza frontiere, con quasi 170mila sostenitori. Nella top ten nessuna sorpresa: ad essere più apprezzate online sono le organizzazioni più grandi, già note offline, spesso costole italiane di organizzazioni internazionali come Amnesty International, WWF e Unicef. Hanno successo in particolare quelle che operano in ambito umanitario o ambientalista.
Attenzione all’effetto piazzista
Ma il numero di “mi piace” è un criterio sufficiente per giudicare l’efficacia della presenza in rete? «No, è importante soprattutto l’interazione con la comunità, che si misura attraverso il numero di pagine condivise sui profili di altri utenti e la quantità di risposte ai commenti», risponde Adriano Solidoro, docente di Organizzazione aziendale all’università Bicocca di Milano, specializzato in new media. «I social network non sono un canale per la comunicazione, ma un luogo di conversazione. Spesso le associazioni non tengono presente questo aspetto è li utilizzano in senso unidirezionale», osserva Paola Cinti, che per il Consorzio Fare ha tenuto corsi di social-networking rivolti a diverse organizzazioni di volontari. «Nella maggior parte dei casi ci si limita a pubblicare i comunicati dell’associazione e l’impegno finisce lì», aggiunge la Cinti. «Questa strategia è sbagliata, è come se uno entrasse in un bar e incominciasse a urlare reclamizzando la sua merce», dice Andreas Voigt, esperto di comunicazione di impresa e gestore del sito innovando.it. Chi si occupa del web nelle associazioni a volte è consapevole del rischio e cerca di evitare l’effetto “piazzista”. «Sappiamo che chi ci segue è attento a certe tematiche e sollecitiamo la discussione su quelle, al di là dei nostri impegni», dice Emanuele Rossini responsabile della comunicazione sul web di Emergency.
Nella maggior parte dei casi, l’aspetto social del web si esaurisce su Facebook. «Una situazione che rispecchia l’utilizzo generale della rete in Italia: per la gran parte dei navigatori italiani Facebook si mangia gli altri spazi», dice Voigt.
In ogni caso, per calcolare l’impatto dei tweet non basta guardare ai numeri di utenti che seguono il profilo (i followers). L’influenza si pesa anche in base al numero di “retweet” e “menzioni” fatte da altri. Un utile strumento di valutazione che tiene conto di questi fattori è twitalyzer, giudicato dal New York Times «il modo migliore per valutare l’efficacia su Twitter». I voti di twitalyzer vengono dati in centesimi: ai primi posti in base a questa valutazione si confermano Emergency e Greenpeace, rispettivamente con 11,3 e 11,1. Seguono, piuttosto staccate, Amnesty (2,9), Save the Children (1,9) e Unicef (1,8); per tutte le altre, voti da prefisso telefonico.
Google non ci aiuta
Non va meglio sugli altri canali più specializzati. Jumo, ad esempio, è il network pensato proprio per le associazioni a scopo benefico, lanciato lo scorso anno da Chris Hughes, uno dei primi soci di Mark Zuckerberg. «Altrove è uno strumento indispensabile per il click-attivismo, da noi invece è praticamente inutilizzato», osserva Paola Cinti. Molti volontari e attivisti sono presenti come singoli, ma le associazioni latitano. Stessa situazione sul network professionale di LinkedIn: anche qui le principali organizzazioni non hanno profili dedicati. Esistono però gruppi tematici, piuttosto frequentati, con forum di discussioni mirate soprattutto sul fundraising. «In questi luoghi sono soprattutto le piccole associazioni a chiedere consiglio a chi lavora nelle grandi», dice Raffaele Coruzzi di Unicef.
D’altro canto c’è da dire che Zuckerberg & Co. non fanno molto per venire incontro al terzo settore italiano. Infatti, se negli Stati Uniti Facebook ha un sistema di pagamenti gestito direttamente dalle sue pagine, uno strumento che permette alle charities di raccogliere fondi con molta facilità, non esiste un’applicazione analoga nel nostro Paese. E se Google negli Usa ha lanciato qualche settimana fa un canale «for non profits», lo stesso servizio non è attivo per l’Italia. E così, tocca disconnettersi e fare ricorso ai mezzi tradizionali.
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