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L’ammissione dei cooperanti: «Non siamo stati capaci di farci ascoltare»

Vincent Annoni da quattro anni è il responsabile d'area del Cesvi

di Redazione

«Sin dal settembre dell’anno scorso le organizzazioni che lavorano nel Corno d’Africa avevano chiesto un monitoraggio molto attento delle stagioni delle piogge e dei piani di contingenza nel caso si avverasse un certo tipo di scenario». Vincent Annoni è da quattro anni responsabile del Cesvi per questa regione dell’Africa. Ha visto altre siccità, ma non ha dubbi: «Le proporzioni sono del tutto diverse. E se si vuole incidere bisogna innanzitutto deragliare dalla routine. Il problema è che la piena consapevolezza dell’entità delle crisi, e delle necessità delle persone che stanno arrivando in Kenya, a livello locale non c’è ancora».
Eppure i campanelli d’allarme hanno cominciato a suonare mesi fa. Si sapeva che la Nina, la corrente oceanica che influenza i fenomeni di siccità, avrebbe colpito questa zona dell’Africa, rendendo ancora più severe le condizioni climatiche e le crisi periodiche alle quali è esposta. Le previsioni si sono avverate: niente pioggia, o solo qualche precipitazione sporadica, per quasi due anni. «Non si possono anticipare gli effetti di un fenomeno metereologico, ma si può preparare un piano», dice Annoni. «Il problema è che la voce di chi lavorava sul terreno non ha ricevuto l’eco sufficiente presso le istituzioni internazionali. Evidentemente o non siamo stati abbastanza bravi noi a veicolare questo campanello d’allarme o altre crisi hanno messo questa in secondo piano». Nel Corno d’Africa Cesvi promuove progetti di lotta alla malnutrizione, di protezione dell’infanzia e interventi ambientali legati allo smaltimento dei rifiuti. Di fronte a una crisi umanitaria di queste proporzioni le ong stanno provando ad allargare il raggio d’azione, coordinandosi con le agenzie dell’Onu. Ma sono in definitiva queste ultime, e i governi, ad avere capacità di intervento su larga scala. «Il Corno d’Africa non sarà mai una regione dove pioverà tanto, ma ci possono essere politiche, interventi, azioni, mitigazione di eventuali siccità che si possono attuare. In realtà ne sono state attuate pochissime e in pochissimi luoghi», afferma Annoni. Un esempio è la gestione delle acque: in Somalia il 70% delle risorse idriche va direttamente a mare. «Ora la Somalia è l’epicentro di una crisi, ma anche in Kenya il prezzo delle derrate alimentari è raddoppiato e l’Etiopia da più di un anno sta affrontando l’emergenza», rincara Tommy Simmons, direttore di Amref, organizzazione sanitaria nata in Kenya che promuove progetti idrici gestiti dalle comunità locali. «Dato che nella regione non sono previste piogge prima di ottobre-novembre, e solo dopo ci saranno i primi raccolti, i mesi più duri di questa crisi umanitaria devono ancora venire», afferma Simmons. «Le falde idriche si stanno abbassando e molti pozzi si stanno prosciugando creando una situazione sempre più difficile per un crescente numero di persone».
Nel frattempo gli integralisti islamici shaabab, che controllano ampie porzioni del territorio somalo, hanno dato l’autorizzazione all’ingresso di organizzazioni umanitarie. Un team di Save the Children ha visitato il campo di Tawakal nel Nord del Paese che ospita 7mila persone, di cui 5mila sono bambini. Il numero di minori colpiti da malnutrizione, accolti e curati presso i centri di nutrizione di Save the Children nel Puntland è quasi duplicato nel corso degli ultimi sei mesi.

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