Welfare
Per la 5.838esima volta il boia non ha avuto pietà
L'esecuzione di Troy Davis. E degli altri
di Redazione
Nessuno tocchi Caino, disse il Signore. «Uccidete Troy Davis», sentenziarono i giudici statunitensi. E fu così che un uomo di 42 anni, nero, condannato per l’omicidio di un poliziotto, il 21 settembre è stato giustiziato in Georgia nonostante a molti la sua colpevolezza apparisse dubbia. A suo favore si erano espressi l’ex presidente Usa Jimmy Carter, l’ex giudice capo della Corte Suprema della Georgia Norman Fletcher, l’ex vice procuratore generale degli Stati Uniti Larry Thompson, numerosi parlamentari del Congresso, la figlia di Martin Luther King, l’arcivescovo Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace, e persino papa Benedetto XVI. Amnesty International, che ha definito l’uccisione di Troy un «catastrofico fallimento del sistema giudiziario», e altre organizzazioni umanitarie avevano raccolto quasi un milione di firme contro l’esecuzione.
Nulla è servito a fermare il boia. Edulcorare le parole non serve. Su mandato di un tribunale, un uomo o più uomini, per dovere o per mestiere, si incaricano di ucciderne un altro. Spesso, come in questo caso, dopo averlo tenuto in carcere per vent’anni e avergli inflitto la tortura dei rinvii (quattro volte dal 2007) e delle false speranze. In quella stessa giornata, mentre a Davis veniva iniettato un liquido mortale nelle vene, un altro condannato per omicidio, Lawrence Brewer, veniva giustiziato in Texas, un ragazzo di 17 anni, Alireza Molla-Soltani, accusato di omicidio, e un uomo condannato per narcotraffico venivano impiccati in Iran, mentre un uomo ritenuto spacciatore di stupefacenti, Zahid Husain Shah, veniva giustiziato in Cina.
Seppur diminuiscano i Paesi che prevedono la pena di morte (nel 2010 erano 42, 54 nel 2005), continuano a essere migliaia ogni anno gli “omicidi di Stato”: almeno 5.837 nel 2010 le pene capitali eseguite, 96 in più rispetto all’anno precedente. Quell'”almeno” sta a significare che il regime non democratico di alcune delle nazioni impedisce di conoscere con esattezza la quantità delle condanne a morte. La gran parte, infatti, viene effettuata in Asia e in particolare in Cina. Delle esecuzioni negli Usa, se non altro, si conosce la cifra esatta: lo scorso anno 46. Un numero relativamente piccolo, ma guardato in controluce rivela che la pena di morte viene applicata soprattutto nei confronti delle persone di colore, povere, senza possibilità di difesa efficace nel processo. La giustizia americana, dunque, è bendata ma sa riconoscere il censo dell’imputato e trattarlo di conseguenza.
In una lettera scritta agli attivisti di Amnesty International (la leggete qui accanto), Davis ha ricordato che la battaglia va oltre il suo caso. Attorno alla vita o alla morte di tutte le persone in attesa di esecuzione, insomma, si esemplifica un’idea della giustizia, non solo una questione umanitaria. E questo può forse essere ancor più vero se in discussione vi è la vita o la morte di un condannato incontrovertibilmente colpevole. Perché il problema non dovrebbe solo il rischio di uccidere un innocente, ma l’idea stessa che una giustizia ritorsiva possa ancora qualificarsi giustizia.
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