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La solitudine non è la regola. anche Agamben rilegge Francesco
Il filosofo italiano attualizza il concetto di "altissima povertà". Che affascinò Van Gogh
di Redazione

Non fu mai stanco, Francesco. Non possedeva una di quelle anime «in cui la gioia muore a poco a poco, mentre l’entusiasmo rapido si accende e rapidissimo si spegne, tramutando la frenesia nel suo naturale contrappasso, l’accidia e la rassegnazione». Nel 1903, Rainer Maria Rilke chiudeva così la terza parte del suo Libro d’ore, ravvivando l’immagine di un uomo mai solo e mai pago di camminare «lungo prati d’erba, affidando l’anima a ogni stelo, quasi gli fosse fratello». Se vogliamo avvicinarci alle virtù di una vita in comune, scriveva Giovanni Cassiano, monaco del V secolo, dobbiamo «lasciarci guidare da maestri autorevoli» i quali «anziché vagheggiarla con vane discussioni, l’hanno realmente raggiunta e ne hanno fatto esperienza».
Chi, più di San Francesco, è figlio di questa esperienza? L’esperienza della vita comune, precisava Cassiano, è inscritta nel progetto cenobitico da cui la «vita buona» trae nome: koinos bios. Insegnamenti radicati per Francesco non in un monastero ma nel mondo, ossia in un cenobio, che è precisamente una premoderna communitas che molto avrebbe da insegnare anche oggi. Cenobio è comunione (in greco koinos), forma di vita (bios).
Ecco, allora, che in questa vita comune, ci ricorda Giorgio Agamben nel suo ultimo Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita (Neri Pozza, 2011), non c’è solitudine, ma regola, fatto che Francesco non si stancherà mai di testimoniare. Ribadendo che nella dialettica tra regola e vita non è in gioco alcuna precettistica, ma un cammino non rassegnato, una sequela di atti e gesti che va dalla vita alle forme e dalle forme alla vita. Non si tratta, dunque, di applicare una norma alla vita, ma di vivere secondo quella norma.
Quattro anni dopo aver pubblicato il suo Stundenbuch, in una lettera indirizzata alla moglie Clara, allieva di Auguste Rodin, Rilke ritrovava lo spirito di Francesco in un predicatore di nome Vincent Van Gogh, un visionario capace di «raccontare alla gente il Vangelo». Alla gente, ossia a donne e uomini che, come gli steli del Libro d’Ore, «non chiedono né latino né greco al loro predicatore». Predicando, Van Gogh imparò da quegli uomini il silenzio, la fatica, la regola. L’esempio della loro vita comune gli regalò il segno capace di attestare che la «povertà sa tramutarsi in ricchezza, se una luce la rischiara da dentro», anche nei giorni e nei luoghi più bui.
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