Non profit

Viva i commons, ma non facciamone una moda buona per tutte le stagioni

I "beni comuni" irrompono nel dibattito pubblico

di Redazione

Uno strano destino accompagna i commons. Ignorati per decenni e, quando capitava, riesumati come reliquia del passato, ora invece vengono riconosciuti nelle più svariate fenomenologie, a volte anche improprie.
Così l’attributo di bene comune è riconosciuto a diversi elementi: da quelli naturali – l’acqua in primis, ma anche l’ambiente e il paesaggio – fino a tipologie immateriali come la conoscenza e i servizi di welfare. Ad esempio in un recente documento di policy si riconosce come “bene comune” l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. È certamente una diffusione da accogliere con favore, pur sottolineando che un utilizzo eccessivo e non mirato del concetto tende a indebolirlo. Una sorta di “bolla semantica” che rischia di scoppiare perché riempita di significati e riferimenti eccessivamente differenziati. Quel che serve sono definizioni precise in modo che sappia accogliere le spinte innovative emergenti dai contesti sociali. Giusto quindi rifarsi alle comunità territoriali che da secoli gestiscono boschi e pascoli sulle Alpi; altrettanto corretto interrogarsi, come capita in questi ultimi tempi, rispetto all’abitare, inteso come mix di condizioni strutturali, relazionali e di contesto, in qualità di bene comune.
Queste stesse definizioni dovrebbero però contenere, oltre a riferimenti teorici e modelli interpretativi, anche indicazioni sull’approccio al tema. Infatti, secondo alcuni osservatori critici, un ulteriore limite della nuova vulgata intorno ai commons è l’approccio eccessivamente dogmatico. L’acqua è un bene comune, si affermava in occasione degli ultimi referendum. Senza voler fare le pulci a uno slogan di successo, sarebbe meglio dire che l’acqua diventa bene comune, correndo anche il rischio, come in effetti è successo, di perdere e poi di riacquisire nel tempo questa qualifica. È importante quindi poter disporre di forme organizzative capaci di generare e, più spesso, di rigenerare commons che oggi non sono più tali o sono sottoutilizzati, evitando la “tragedia” ? come intitolava un pluricitato saggio scientifico ? di vederli statalizzati o ridotti a scambio mercantile. Si apre così una nuova, importante questione che tocca aspetti gestionali, organizzativi e giuridici dei soggetti che si fanno carico di questa missione. Un argomento di grande interesse perché la pluralità dei commons si accompagna a una pluralità quasi altrettanto ricca e certamente poco esplorata di forme di gestione. Proprio intorno a questo tema ci si confronterà a Bertinoro nell’ambito di una sessione che, insieme al rigore teorico e analitico, proporrà idee e nuove progettualità.

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