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Senza progetti, sono soldi gettati al vento. Per questo abbiamo chiuso le porte

migranti

di Redazione

«Sull’accoglienza ai profughi l’Italia è tornata indietro di vent’anni. Nel 1991 l’arrivo in massa degli albanesi era stato gestito meglio». Parole ragionate, quelle di Claudio Ilarietti, presidente del consorzio Ex.it, sigla della galassia Exodus che, tra i vari servizi dedicati agli stranieri, coordina il Cesis – Centro servizi per immigrati stranieri, nato sul territorio di Monza e provincia proprio in occasione dell’emergenza Albania e uno dei primi centri accreditati, a livello nazionale, nel rinnovo dei permessi di soggiorno.«Nonostante la nostra lunga esperienza nell’accoglienza, in questo caso abbiamo deciso di non dare disponibilità di strutture o di assistenza», rivela Claudio Ilarietti.
Perché questa scelta?
A nostro avviso manca una progettualità seria, un coordinamento generale. Il punto di partenza sono le stesse condizioni amministrative dei profughi: per ora hanno il permesso di soggiorno, ma che ne sarà di loro tra sei mesi se non verrà concesso loro lo status di rifugiato? Sarebbe un’accoglienza fine a se stessa, che si può tramutare in una bomba pronta ad esplodere. Il problema è che non si può programmare un percorso di inserimento, né dare a queste persone un orientamento per il futuro.
Nel 1991 come era stata affrontata l’emergenza?
Nonostante allora l’allarme fosse scoppiato in un tempo ancora più breve di oggi ? basti ricordare le navi stipate di gente che arrivavano una dopo l’altra ? l’approccio era stato completamente diverso. Come prima mossa, le varie istituzioni avevano convocato tutte le associazioni locali, persino le aziende, per vedere le forze che si potevano mettere in campo e le sinergie che si potevano attivare, e il dialogo con loro era stato quotidiano, senza nessuna normativa calata dall’alto.
Sono giusti i 46 euro al giorno che ricevono i gestori delle strutture?
Il tema è complesso, ma di certo è un importo significativo. È chiaro che se con quei soldi garantisci solo i servizi minimi come vitto e alloggio, è tanto. Se invece crei percorsi interessanti di integrazione sociale, può essere poco. Però il fatto che a un profugo può andare bene o male a seconda del grado di bontà dell’associazione o di altro ente gestore è una regressione a livello progettuale. Avrebbe dovuto esserci un filtro più forte, magari che premiasse l’esperienza diretta in materia degli enti più che la loro capacità di inserire più o meno persone nelle proprie strutture.

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