Non profit
Contro il cancro mettiamoci una buona parola
Comunicazione essenziale in oncologia
di Redazione
Qual è la differenza tra: «Vedremo cosa si può fare» e «Faremo tutto il possibile»? La vita o la morte di una persona, se le due diverse frasi sono rivolte da un oncologo a un paziente cui è appena stato diagnosticato un cancro. Ne è convinto il professor Alberto Scanni, oncologo e presidente dell’associazione Progetto Oncologia Uman.a (www.progettoumana.it), promotore del convegno “Il valore della parola in oncologia e non” svoltosi a Milano il 7 ottobre. «I malati hanno paura e pendono dalle labbra di chi li assiste», spiega Scanni. «Per questo, anche se strozzati dai carichi di lavoro, noi sanitari dobbiamo usare bene le parole». E proprio il buon uso della parola è stato al centro dell’appuntamento. «No ai protocolli che fanno sentire il malato un numero», ha osservato Luigi Valera, della Società Italiana di PsicoOncologia. «Bisogna ascoltare il dolore e la rabbia e arrivare alla diagnosi con i tempi del paziente». Per Giorgio Lambertenghi, presidente Medici Cattolici di Milano, «la capacità del medico di consolare nasce dalla sua disponibilità, che non conosce fretta. E quando la parola non è possibile, servono sguardi, sorrisi, abbracci».
«Ci sono parole non dette e gesti che possono guarire o ferire», ha rilanciato suor Annamaria Villa, medico del Poliambulatorio Opera San Francesco per i poveri. E poi conta il tempo: «C’è una discrepanza fra ciò che i medici pensano di aver detto al paziente e la percezione di quest’ultimo», ha sottolineato Delia Duccoli, della Fondazione Istud. «Quando si chiede quanto è durata una visita, se il medico dice 10 minuti, il paziente dice 2». Il convegno ha celebrato i vent’anni di Uman.a, che nel 2003 ha aperto all’ospedale Fatebenefratelli l’hospice “Casa Claudia Galli” e attivato un corso gratuito per assistenti domiciliari.
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