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Sognando Palestina i bambini sanno guardare lontano

Riflessioni a margine del "caso Shalit"

di Redazione

Robert Fisk, uno dei più grandi corrispondenti del Medio Oriente, nel suo Cronache mediorientali sosteneva che era imbarazzante il modo in cui Arafat usava i ragazzini palestinesi come “spalla”, da mettere a disagio persino i suoi stessi collaboratori. E raccontava, a questo proposito, di quando alla domanda «qual è il futuro della Palestina?» Abu Ammar – questo lo pseudonimo che si scelse Arafat – agguantò un ragazzino e gli diede un interminabile bacio sulla guancia, dicendo: «È lui, il futuro della Palestina».
Quando uscì il mio primo libro, Sognando Palestina, iniziai una lunga ricerca per trovare una foto che suggerisse la dimensione onirica indicata dal titolo, ma l’editore scelse tutt’altro. E così la copertina finì per mostrare un ragazzino. Un bimbo, anzi, con un kalashnikov in mano, e lo sguardo scanzonato rivolto da un’altra parte. A pensarci bene, l’idea stessa del mio libro deriva dalla storia di un ragazzino: quella di Mohamed Al Dorra, il giovane palestinese ucciso davanti al padre il secondo giorno della Seconda Intifada. Immagini che scatenarono una lunga diatriba, ci fu addirittura chi sostenne che l’intera sequenza fosse un montaggio ad arte, un’invenzione, un falso.
La Palestina indugia, ancora. Crogiolandosi nel dolore. Cambia sempre, pur non esistendo, cambia sempre proprio perché non esiste. Cambia attraverso i suoi figli, prima combattenti laici, poi combattenti islamici, poi attentatori suicidi, poi gente nata e vissuta in un campo profughi, senza soluzione di continuità, piccoli portatori sani di contraddizioni. La Palestina è nei nostri occhi di giovani che non la conoscono se non per suggestione, se non per ereditato ardore filo-palestinese. Occhi di giovani europei avvezzi a guardare Al Jazeera insieme a genitori a lungo vissuti in Italia senza mai, mai, smettere di filtrare ogni avvenimento con gli occhi del passato, che vissero in diretta la disfatta del 1967 e la rivincita del 1973.
La Palestina è una chiave che il bambino in sella al lucente cavallo non ha mai potuto tenere in mano. Una chiave che forse non capisce, e che non apre più nessuna porta. Ma tu sei rimasto incastrato proprio lì, in quella serratura temporale, e non puoi fare a meno di agitarla, quella chiave. Persino ai negoziati, nelle stanze surreali della politica. I bimbi guardano la simmetria. Ma guardano, meglio, l’asimmetria. David Hacham-Herson, un giovane refusnik, scrisse dalla prigione militare: «Sono un soldato dell’esercito israeliano, imprigionato per essermi rifiutato di partecipare alla repressione. Sono animato dalla convinzione che è inammissibile essere un ebreo – figlio di un popolo di rifugiati – e nel contempo sopraffare un popolo di rifugiati». Denunciava l’asimmetria. Non c’è simmetria tra occupanti e occupati. Gilad Shalit, un esileeroicosoldatodipace, come dicono i giornali, viene liberato, mentre centinaia di sanguinari terroristi sguinzagliati in giro. Le categorie di valore ci schiacciano. Due bimbi guardano l’asimmetria, la capiscono senza bisogno di una didascalia. Noi no.

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