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Questa non è la fine. Semmai è un inizio

di Redazione

Viviamo in un tempo “apocalittico”? Difficile negarlo. Ma occorre rovesciare il senso comune, tutto negativo, di quella parola. Noi pensiamo che sia l’equivalente di catastrofe. Invece il significato vero è “rivelazione”. Rivelazione di un assetto nuovo…Quando nel parlare quotidiano, con sempre maggior ricorrenza si sente usare il termine “apocalisse”, quasi sempre l’elemento dominante risiede in una sfumatura che nel termine originale greco non sussisterebbe, ma che in qualche modo vi si lega grazie al sentire comune: apocalisse come catastrofe.
Quando parliamo di apocalisse, dunque, nel linguaggio comune facciamo riferimento a un disastro, inteso però nel suo senso di radicale messa in questione di assetti morfologici. È questo il senso dell’espressione, usata un po’ per esorcizzare le paure, un po’ per un innato gusto retorico dei nostri mezzi di comunicazione del «niente sarà più come prima».
Eppure, superstizione e retorica a parte, una catastrofe è proprio questo: qualcosa che cambia completamente un assetto e muta completamente una forma. Anche una forma sociale. Con tutte le paure che ne conseguono.

Verso lidi più umani
Forse per questo, l’attuale crisi finanziaria, che non ha nulla da invidiare al più cupo e cruento degli scenari apocalittici, ci deve interrogare più di quanto non stia già facendo sul senso del nostro impegno e delle nostre relazioni. In gioco è non solo la capacità del cosiddetto “sistema-Paese” di giocare un ruolo determinante sui mercati internazionali.
Tutt’altro. In gioco è la forma stessa del nostro agire comune e le forme che questo agire in una direzione o nell’altra assumerà. Siamo alla vigilia, o forse già nel corso di un epocale movimento che ci porterà o verso lidi più umani del vivere sociale o verso qualcosa che ancora non conosciamo ma subodoriamo già come temibile e cruento. Non è un caso che, tanto nell’uno quanto nell’altro senso, la nozione di apocalisse si possa associare proprio all’idea di un movimento che, andando al cuore di ciò che ci troviamo di fronte, lo dissolve. E dissolvendo porta in primo piano qualcosa che è più vero – forse più felice, forse più cupo – di ciò che in tal modo si è dissolto.
L’apocalisse è rivelazione, ma rivelazione di qualcosa che, se rivelato, muta radicalmente le condizioni in cui si trova colui a cui questa rivelazione giunge e il mondo in cui costui è collocato. In questo senso, dalle crisi non si esce mai – se non mutati.
Oggi, il nostro mondo si dissolve perché una crisi gli rivela una verità più grande di quella che esso sa o ha saputo ospitare. È su questo punto che dovremmo insistere. E anche se il tempo che verrà – per dirla con Friedrich Hölderlin – sarà un «tempo di miseria», a maggior ragione avremo bisogno di spazi liberi di pensiero e parola, ma soprattutto di ascolto per affrontare le tempeste a venire.

Largo alla poesia
E allora, chiediamoci: perché l’arte, perché la letteratura, perché la musica e, soprattutto, perché la poesia in questo “tempo di miseria”? Semplicemente perché la poesia, la musica, l’arte sono essenzialmente qualcosa che ci è dato da altri e che gli altri ci chiedono di accogliere, di ascoltare, di guardare così come sono. Sono il banco di prova dell’ascolto e dell’incontro con l’altro. Perché, soprattutto nell’ultimo secolo, la grande poesia (pensiamo a Rilke, Zanzotto, Pasolini o Celan) ha saputo assumere questa relazione col pensiero: chiedere che il pensiero non menta rispetto a ciò che essa mostra.
Chiedere, apocalitticamente, a tutti noi di andare al fondo delle nostre proprie ragioni. Delle ragioni del nostro complessivo lavoro, dell’ordine dei pensieri, dei linguaggi, delle azioni sociali. E forse anche delle nostre relazioni personali e più intime. La poesia e l’arte ci accordano alla necessità del tempo presente.

L’urgenza della cosa
Anche quando è un tempo di apocalisse, catastrofe e crisi, al cuore della nostra libertà c’è sempre la ricerca di una nostra profonda necessità. Necessità che non si vivano certe scelte come dati di fatto meramente “subiti” o, peggio, quali prova del nostro supposto libero arbitrio. La necessità è qualcosa che si deve fare e nei confronti della quale conta non tanto la nostra libertà di fare o non fare quella cosa, ma la posizione etica che sappiamo assumere dinanzi all’urgenza di quella cosa. Un’etica dell’agire e del fare, ma soprattutto un’etica del pensare. E del non limitare la nostra possibilità di pensare in altre forme e in altri modi. Questa postura etica trasforma i nostri gesti, anche i più semplici, in un qualcosa di potente che, se coltivato con docile umiltà, sa dare alle cose che facciamo la detonazione che caratterizza ciò che è reale.

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